The golden age of Blue Cheer – 1° parte

(Alessandro Priarone)

Endless trip

Nella celeberrima pellicola cinematografica Ritorno Al Futuro, Marvin Berry, cugino del celebre Chuck Berry, ferito alla mano nel tentativo di liberare Marty McFly, non riesce più a suonare la chitarra e Marty lo sostituisce per l’ultima parte del ballo “Incanto Sotto Il Mare”. Il giovane improvvisa Johnny B. Goode, brano non ancora composto, portato al successo da Chuck, fatto sentire al parente via telefono dallo stesso Marvin. Il ragazzo della DeLorean sfodera un’esibizione sbalorditiva, imitando Hendrix, Townshend, Van Halen e il “duck walk”. Gli studenti di quell’immaginario 1955 si fermano increduli e il preside Strickland resta immobile con le orecchie tappate. “Penso che ancora non siete pronti per questa musica ma ai vostri figli piacerà“. Ora, provate ad immaginare uno episodio simile, concreto e non irreale, nei concerti del 1967 o 1968 con i Blue Cheer protagonisti, magari in California a Santa Monica insieme ai Buffalo Springfield, all’Auditorium o a San Josè al Civic Centre.

Brutalità sonora, un cumulo infinito di angoscia adolescenziale, un pugno arrabbiato di sporco feedback scagliato contro hippy storditi e investiti da una serie di calci allo stomaco. Disprezzati dalle altre band della loro scena, suonano così forte che la gente scappa inorridita dalla paura, esterefatti come i liceali del film di Zemeckis. Mike Bloomfield, grande chitarrista della Paul Butterfield Blues Band ed Electric Flag, all’Avalon Ballroom di San Francisco, dissuade il bassista del gruppo a proposito del suono aggressivo e totalmente assordante: “Non puoi farlo!”. “Andiamo Mike, puoi riuscirci anche tu. Tutto quello che devi fare è ruotare questa manopola fino a 10”. L’odio scatta automatico.

Intense and destructive

A metà settembre 1965 un drappello di adolescenti, colpiti dalla British Invasion, si riunisce per celebrare il nuovo anno scolastico e con loro il potere embrionale di quella che sarebbe diventata una sottocultura completamente nuova. A questo evento partecipano due band, gli Hide-a-Ways (in seguito noti come The Oxford Circle) e il Group B, i cui membri hanno proseguito a generare un energico, innovativo e letteralmente fragoroso blues rock power-trio. Il cantante e bassista Dickie Peterson forma i Blue Cheer (una varietà di LSD prodotta dal chimico clandestino e engineer dei Grateful Dead, Owsley Stanley e omonima marca di un detersivo per bucato) nel 1966 da una comune di Haight Street a San Francisco. Dickie è stato in contatto con The Oxford Circle, così come i futuri segmenti dei Blue Cheer, Paul Whaley e Gary Lee Yoder.

The Oxford Circle

La line-up originale è composta dal cantante/bassista Peterson, dal chitarrista Leigh Stephens e da Eric Albronda come batterista. Albronda viene in seguito sostituito da Whaley, a cui si unisce il fratello di Peterson, Jerre (chitarra), Vale Hamanaka (tastiere) e Jere Whiting (voce, armonica). Albronda consolida il sodalizio con Blue Cheer come fulcro del management, oltre ad essere produttore o co-produttore dei futuri album. L’entourage comincia a essere gestito da un inattivo HAMC (Hells Angels Motorcycle Club) di nome Allen “Gut” Terk.

Secondo diverse voci dell’epoca Dickie Peterson, Leigh Stephens e Paul Whaley decidono di rimanere in tre dopo aver visto Jimi Hendrix al Monterey Pop Festival nel 1967.

Molto improbabile. Il trio si è sagomato prima di vedere Hendrix. Jimi rappresentava la conferma che quella era la giusta direzione da prendere. La natura musicale della band, oltre alle scintille dell’invadente rock inglese, inizia con l’influenza blues e rock’n’roll. Da Jimmy Reed, bluesman eccezionale che ha ispirato Elvis, Rolling Stones, Yardbirds, Animals, a Muddy Waters o i rockers classici tipo Little Richard, Jerry Lee Lewis, Elvis Presley. Si dice che se non puoi suonare il blues, non puoi suonare il rock’n’roll. Non esiste un accordo particolarmente complicato per questo sound, perlomeno non così complicato come qualcuno cerca di far credere. Rock’n’roll è una porzione di tecnica dentro una preponderanza di attitudine. Si può fare di più con una nota e con l’atteggiamento giusto di quanto si possa ottenere con cinquanta note e nessuna predisposizione.

In un ciclo storico in cui molte delle idee provenienti da San Francisco stavano emergendo dalla sfera folk rock, l’apogeo arriva dal Northern California Folk-Rock Festival, tre motociclisti pazzi per l’acido, autoconfessati tossicodipendenti, gestiti da un Angelo dell’Inferno, cercano di suonare per un pubblico di indesiderabili. Vincebus Eruptum, il folgorante debutto di Blue Cheer, è stato registrato in pochi giorni con un mixaggio minimo e una barriera di amplificatori. Nella California del 1968, nessuno sembrava capire cosa li avesse colpiti. La gente pensava che stessero solo facendo frastuono, che fossero dannosi nel mondo West Coast. Ma volevano solo essere così, un’apoteosi fisica e volumetrica.

Hard-rock, heavy-metal e conseguentemente altre tendenze future, prendono lucentezza dalla collisione terrificante che punta tutto sui rimbombanti segnali elettrici dei riff chitarristici di Leigh Stephens e quelli del basso. Il clan appartiene alla controcultura, pronto a rimodulare le allucinazioni lisergiche in potenza primitiva. A renderli popolari è stata la scissione atomica della Summertime Blues di Eddie Cochran, seguita dall’anthem generazionale Out Of Focus. Senza contare Doctor Please in opposizione a White Rabbit dei Jefferson Airplane. La descrizione del lato oscuro nell’uso di droghe, in contrasto con i felici figli dei fiori ad inseguire piccoli coniglietti rosa. La versione di Cochran raggiunge l’undicesima posizione nella Billboard Singles Chart nello stesso anno. Durante quel periodo il terzetto appare in televisione sia su “The Steve Allen Show” che su “American Bandstand”. Il pubblico televisivo non era pronto per quei rinnegati, piu’ simili a personaggi di The Twilight Zone che ai reduci dall’Estate dell’Amore. Allen li presenta così:”Signore e signori, Blue Cheer! Correte per le vostre vite”. Andò ancora peggio col famoso conduttore televisivo Dick Clark di “Bandstand”. L’ex Hell Angel Gut e Dickie sono seduti nel camerino a fumare una ciotola di hashish e il buon Clark, entrando, esclama:”E’ gente come voi che regala al Rock’n’Roll una pessima reputazione!”. “Grazie mille!”, la breve risposta. Quella è stata l’ultima volta che la comitiva si esibisce nel programma.

Vincebus Eruptum viene ampiamente e accuratamente descritto come “il disco più rumoroso mai realizzato”, subito appena apparso, nel gennaio del ’68. La band probabilmente ha avuto il buon senso di rendersi conto che sarebbe stato difficile superare il distruttivo impatto brutale. E per il loro secondo LP, Outsideinside, (che è apparso solo sette mesi dopo, ad agosto), piuttosto che puntare a qualcosa di più elevato e maggiormente rafforzativo nei decibel, ha deciso di vedere quanto smalto si potesse aggiungere alla formula iniziale, senza intaccare la forza schiacciante. Vincebus Eruptum è stato inciso semplicemente con sovraincisioni minime, diversamente la seconda opera ha introdotto le ulteriori possibilità dello studio di registrazione con la variante delle sessioni di base, realizzate esternamente, al Pier 57 a New York, Manhattan.  Leigh Stephens ha sovrainciso più parti di chitarra su diversi passaggi, laddove il mix fa ondeggiare i virtuosismi come se esplodessero all’interno di una cupola. Il mostruoso e sfocato ringhio del tono viene ripulito in alcuni passi (tipo gli assoli wah-wah su Gypsy Ball), mantenendo il risultato delicato come una sega circolare.

La batteria di Paul Whaley rimane veemente e il basso di Dickie Peterson anticipa l’hard più melodico che tra poco esploderà ovunque. La voce viene accuratamente estesa con il solito ululato perennemente spavaldo.  Ma se Outsideinside è più pulito, più compatto e più ambizioso del precedente vinile, rimane, comunque, della stessa risonante matrice. Sono presenti due cover: Satisfaction degli Stones e The Hunter di Albert King. Questo LP cattura il lato psichedelico del progetto con maggiore chiarezza rispetto all’approccio schietto del debutto; Outsideinside esplode aspramente nella sua essenza corrosiva in cui le oltraggiose distorsioni accompagnano le malate armonie.

1968 was the year the world burned

Pochi mesi prima, esattamente il 23 giugno 1968 al Grande Ballroom, Detroit, si esibisce, in una serata che avrebbe marchiato il rock, un tris d’assi: Blue Cheer, MC5 e Stooges, che ancora si chiamavano The Psychedelic Stooges. Un evento leggendario di cui Peterson rievoca e sottolinea: “Probabilmente è il mio più grande orgoglio aver fatto parte di quell’evento memorabile, lo ricordo benissimo. Era a Detroit, con Iggy, gli Ashton, Zander, Wayne Kramer e Sonic Smith. Voglio dire, abbiamo scosso quel posto fino alle fondamenta. Penso che sia stato il primo live in assoluto, nella Storia, ad avere così tanto power rock’n’roll da sfoderare. Non credo che qualcosa di simile sia mai avvenuto prima. Nessuno poteva pensare di mettere insieme un terzetto di quel tipo. Devo dire che lo spettacolo è stato assolutamente incredibile. Iggy mi ha fatto impazzire. Non avevamo mai visto nulla di simile a lui. Ne noi, ne altri. E nessuno aveva mai concepito qualcosa di paragonabile a tali performance”. Perfino un mito come Jim Morrison si interessa al trio di Haight-Ashbury descrivendoli come “La band più potente del pianeta”. Non altrettanto benevolo il giudizio di Dickie Peterson:”La prima volta che sono andato ad ascoltare i Doors alla sala da ballo di Avalon a Frisco, sembravano quattro tipi di LA piuttosto curiosi. Sono saliti sul palco, hanno iniziato la prima canzone senza un bassista. Mi sono girato e sono uscito. Io sono un bassista e per me, a 19 anni, questa è stata la cosa più offensiva al mondo. Più tardi Morrison ci indicò tra i suoi preferiti e veniva ai nostri concerti a Los Angeles. C’era anche un po’ di socializzazione in corso, niente di particolare. Alla fine non è stato piacevole per Jim, ovviamente. Noi tutti abbiamo perso un grande poeta”.

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