Bloomfield-Kooper-Stills – Super Session

(Andrea Romeo)

La storia potrebbe essere andata in questo modo, ovvero come fu che un gruppo di amici si ritrovò a fare musica insieme e, senza saperlo, e senza forse neppure volerlo, registrò un capolavoro non solo del rock-blues ma anche, e soprattutto, l’album che inconsapevolmente diede il via al concetto di musica fusion…

Tutto accadde nel mese di Maggio del 1968, presso gli  studi Columbia di New York City: Alan Peter Kuperschmidt, Al Kooper, tastierista, compositore, arrangiatore, produttore e personaggio chiave degli anni ’60, durante i quali aveva affiancato Bob Dylan in Highway 61 Revisited (suo il riff di organo in Like a Rolling Stone) e Blonde on Blonde, aveva lasciato il segno suonando corno francese e pianoforte in You Can’t Always Get What You Want degli Stones ed era stato tra i fondatori dei Blood, Sweat & Tears, durante le sessioni del primo album di Dylan aveva conosciuto un giovane e talentuoso chitarrista che aveva poi accompagnato il cantautore di Duluth al Newport Folk Festival del 1965 insieme al gruppo in cui militava, The Paul Butterfield Blues Band: Mike Bloomfield, che più tardi fondò The Electric Flag, fu il primo tra i suoi amici a sedersi in studio con Kooper, ma non l’unico.

Li raggiunse quasi subito il texano Stephen Stills, cantautore e chitarrista che, dopo aver militato in due band dal successo relativo, i Continentals ed il gruppo corale Au Go Go Singers, insieme a Richie Furay e Neil Young aveva fondato e reso famosi i Buffalo Springfield; arrivarono poi il bassista Harvey Brooks, che aveva collaborato all’album di Miles Davis Bitches Brew, aveva incrociato Kooper e Bloomfield durante le registrazioni di Highway 61 Revisited e registrerà alcune tracce per The Soft Parade dei Doors nel 1969, il batterista Eddie Hoh, attivo con The Flying Burrito Brothers dopo essere stato un eccellente turnista, ed il pianista Barry Goldberg, che aveva incrociato Bloomfield ed Hoh nei primi anni ’60 prima di accompagnare Dylan a Newport insieme alla Paul Butterfield Blues Band, e fondare con Bloomfield, Brooks, il batterista Buddy Miles ed il chitarrista Nick Gravenites gli Electric Flag.

Un vero e proprio gruppo di amici dunque, che si ritrovò per una serie di session informali, molto libere e rilassate: Kooper prenotò gli studi per un paio di giorni, nel primo dei quali il quintetto registrò diverse basi strumentali principalmente blues oriented, inclusa la scorribanda modale di His Holy Modal Majesty, tributo all’ultimo John Coltrane; Bloomfield tornò improvvisamente a Mill Valley, California perché, a suo dire, soffriva di insonnia, ma in realtà era già vittima dell’eroina che lo ucciderà nel 1981 e fu proprio Stills, prossimo ad uscire dagli Springfield, a prendere il suo posto occupandosi delle tracce vocali tra cui la cover di Dylan It Takes a Lot to Laugh, It Takes a Train to Cry e la suggestiva Season of the Witch di Donovan: unico lavoro esterno fu quello di Brooks, che registrò i fiati ed alcuni overdubs su Harvey’s Tune sempre negli studi di New York City, dove l’album venne infine mixato.

Il tutto per la modica (ma seriamente) cifra di $13,000 che all’epoca, per registrare un intero album, erano davvero un’inezia.

Lato A, dunque, con Bloomfield in evidenza già dal brano di apertura, Albert’s Shuffle, in cui la chitarra del musicista di Chicago, le tastiere di Kooper e Goldberg ed i ricercati arrangiamenti dei fiati se la giocano alla pari per quasi sette minuti di groove e calore.

Stessa cosa, con sequenze simili, nella successiva Stop, cover hardboiled-style firmata dal compositore di Philadelphia Jerry Ragovoy, autore tra l’altro della celeberrima Time Is on My Side, portata al successo dai Rolling Stones, e nel brano firmato da Curtis Mayfield Man’s Temptation, arrangiamento da big band e Kooper sugli scudi grazie ad un’interpretazione a mezza via tra black music ed uno stile più pop.

Il vero incendio sonoro scoppia però nella successiva His Holy Modal Majesty, senza dubbio la traccia più intrigante della prima facciata, uno strumentale, e non inganni l’inizio quasi in sordina, in cui la tenzone tra le tastiere di Kooper e la Gibson Les Paul di Bloomfield lascia di stucco il resto della band che non può che assecondare, con un tappeto sonoro privo di asperità, un fiume in piena non altrimenti arginabile.

Con questa esecuzione Bloomfield mostra il perché, nel 2003, verrà inserito al N°22 della classifica di Rolling Stone dei 100 Greatest Guitarists of All Time, e riconfermato al N°42 della medesima graduatoria, otto anni dopo.

Blues doveva essere e blues, da diversi punti di vista, è stato e con un classico si chiude il lato A: Really è sia il saluto di Bloomfield, che abbandona la compagnia in preda ai propri demoni e lo fa esibendo un gusto raffinato ed un tocco quasi felpato, che il momento di passaggio verso il lato B, in cui le cose cambieranno parecchio.

Altra musica davvero, ed è chiaro sin dalle prime note di It Takes a Lot to Laugh, It Takes a Train to Cry: Hoh e Brooks stendono una base ritmica notevolissima per dinamica e creatività, su cui la Rickenbacker di Stills appoggia brevissimi assoli, ma soprattutto un cantato che, per timbro e stile, trasuda west coast style ad ogni nota.

Si è parlato di fusion, ma va fatta chiarezza: non siamo ancora al significato che il termine assumerà oltre una decina di anni dopo, ma a quello primigenio di fusione di stili: in tal senso va letta l’esecuzione di Season of the Witch, che propone un approccio psichedelico davvero distante rispetto al brano nella sua versione originale, grazie all’Hammond di Kooper ed alla chitarra, ricca di effetti e wah-wah, di Stills.

Per chiudere, un’altra cover di lusso firmata Willie Cobbs, autore, cantante blues ed armonicista di Monroe County, Arkansas, recentemente scomparso: la sua You Don’t Love Me, scritta nel 1960 ed eseguita da diversi artisti (tra gli altri: John Mayall & the Bluesbreakers, Booker T. & the M.G.’s, Ike & Tina Turner, Albert King, Sonny & Cher, Luther Allison e Gary Moore), troverà la sua dimensione più esaltante nella torrenziale versione dell’Allman Brothers Band presentata nel live At Fillmore East: i quattro ne eseguono invece una versione acida, psichedelica, in cui la chitarra di Stills dimostra appieno il suo valore anche di strumentista.

Con Harvey’s Tune siamo ai titoli di coda, in senso letterale perché questo strumentale scritto da Brooks, grazie ad un arrangiamento delicato e malinconico, rappresenta la sigla che chiude Super Session, cui verranno aggiunte, nel 2003, Albert’s Shuffle e Season of the Witch, versioni inedite senza i fiati, Blues for Nothing, outtake inedita e Fat Grey Cloud, altro inedito registrato al Fillmore West sempre nel 1968.

L’album ebbe un successo tanto inatteso quanto clamoroso, sintetizzò l’intero decennio in una decina di brani e lanciò il fenomeno del Blues Revival: Kooper e Bloomfield, sorpresi e confortati dall’eccellente risultato, decisero allora di proporlo dal vivo.

Fillmore East: The Lost Concert Tape 12.13.’68 fu di fatto il secondo album, registrato a New York ed inedito fino alla riscoperta dei nastri da parte di Kooper, che lo pubblicherà nel 2003: vi suonarono Johnny Winter, chitarra e voce, Paul Harris, pianoforte, Jerry Jemmott, basso e Johnny Cresci, batteria.

The Live Adventures of Mike Bloomfield and Al Kooper che venne invece registrato dal 26 al 28 Settembre 1969 al Fillmore West di Bill Graham, coinvolse oltre ai leader John Kahn al basso, Skip Prokop alla batteria e gli ospiti Carlos Santana, Elvin Bishop, Dave Brown e Steve Miller, chitarra, che non apparve nelle registrazioni per questioni di permessi da parte della sua casa discografica.

Inutile dire che anche questa performance, ed il doppio album che ne derivò, furono un altro successo sia di pubblico che di critica.

(Columbia Records, 1968)

Print Friendly, PDF & Email