The Answer – Sundowners

Chissà se quando Paul Mahon, chitarrista, figlio di un trombettista jazz componente di una showband irlandese, The Freshmen, che aveva realizzato ben tre album con la CBS, accompagnando in tour i Beach Boys, decise di fondare la propria band, tra Newcastle e Downpatrick, County Down, Irlanda del Nord, correva l’anno 2000, avrà pensato a quanto a lungo sarebbe durata l’avventura… The Answer (… my friends…), la risposta, nonché nome della band medesima, si trova semplicemente nei numeri: doppiati i vent’anni di carriera, giunti al settimo album in studio, raggiunto lo status di band culto, e non solo nel proprio paese, raccolte le lodi di personaggi di un certo peso, all’interno del mondo del rock, da Joe Elliott, leader dei Def Leppard, sino a Jimmy Page, che ha dichiarato di aver assistito a diversi loro spettacoli e che ha presenziato al Classic Rock magazine Roll of Honour Awards, del 2005.

Insieme al cantante Cormac Neeson, al bassista Micky Waters ed al batterista James Heatley, Mahon ha innalzato un edificio musicale il cui sinora ultimo mattone, realizzato a sette anni di distanza dal precedente album, Solas, porta il titolo di Sundowners e rappresenta, dopo questa lunga pausa di riflessione artistica, una sorta di summa di quanto la band ha voluto esprimere in questi ventitrè anni di carriera.

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Sundowners racchiude elementi di rock, southern rock, stoner rock, blues, soul, e non fa nulla per nascondere le radici settantiane che si trovano alla base dell’approccio, dello stile e dell’attitudine musicale della band, radici chiaramente, e dichiaratamente, ledzeppeliniane, al punto che lo stesso Page, in proposito, ha avuto modo di dichiarare: “Se volete vedere come eravamo negli anni ’70, ascoltatevi The Answer.

Detto questo, pensare di trovarsi di fronte ad una band semplicemente derivativa, significa non centrare affatto il bersaglio: The Answer hanno personalità e caratteristiche proprie, che hanno permesso loro di emergere all’interno di un magma musicale decisamente ricco di proposte e, come si suol dire, di “farsi un nome”.

Nelle undici tracce che compongono questo nuovo lavoro, i quattro ragazzi nordirlandesi condensano ed esprimono tutta la propria visione artistica, cercando di raccontarla da ogni punto di vista, ma soprattutto ritornano decisamente alle proprie radici, ovvero a quella musica istintiva, viscerale e spontanea che li aveva caratterizzati sin dall’esplosivo esordio di Rise, uscito nel 2006, album che fece quasi gridare al miracolo legioni di fans del retro-rock che, probabilmente, non si aspettavano di vedersi recapitare una proposta del genere in pieno terzo millennio.

Ma se l’idea è quella di un rock polveroso e dai suoni vecchi, beh non c’è idea più sbagliata, ed è sufficiente far partire la title track, Sundowners, brano peraltro assolutamente “plantiano”, per rendersi conto che la band ha rivisto quel modo di fare musica, ma alla luce di suoni, timbri ed arrangiamenti decisamente attuali, che ovviamente tengono conto di quel mix di generi ai quali si è fatto prima riferimento.

E’ musica emotivamente stimolante, potente, esplosiva, ma nel contempo curatissima dal punto di vista dell’equilibrio fra le componenti che la caratterizzano: Blood Brother, ad esempio, strizza decisamente l’occhio ai QOTSA, ed è brano che dal vivo rende tremendamente, California Rustcatapulta l’ascoltatore nei profondi seventies, laddove Want You to Love Me li riporta in un contesto decisamente più “urban”, stradaiolo, ruvido e grezzo; la costante dominante sono i riff di chitarra ritmica, essenziali, diretti, privi di qualsiasi orpello e di seppur minime divagazioni soliste e che, uniti ad una sezione ritmica davvero “pesante”, cupa e dal suono decisamente “grosso”, creano un sound complessivo compatto e monolitico.

Ma, come detto, le suggestioni sono molte, e spesso divergenti, ed allora ecco arrivare Oh Cherry a smentire tutto quanto affermato precedentemente: suoni scintillanti, dinamica e ritmicamente movimentata, quasi a scuotere e frantumare il muro di suono udito sinora, sino a quando la successiva No Salvation, con la sua armonica malinconica, non cambia ulteriormente le carte in tavola, placando decisamente gli animi e tutta la furia sprigionata sino ad ora, e lasciando alla voce roca di Neeson il compito di ammaliare, con il suo andamento ondeggiante, che rimanda decisamente, eccezion fatta che per i cori, alle ballad più classiche della band del dirigibile.

Cold Heart, con il suo attacco immediato e diretto, sortisce l’effetto di una solenne “pedata” cui fa seguito un brano martellante, tanto essenziale quanto carico di groove, così come All Together, che rispedisce tutti davanti ad un palco: sono brani che catturano immediatamente l’ascoltatore, a loro modo anthemici e che, nello stile e nell’attitudine espressiva, rimandano decisamente ai migliori Free, ai quali fa assolutamente riferimento Livin’ on the line, che ne ricalca soprattutto le scelte, le scansioni  ritmiche e certi passaggi chitarristici che rimandano indiscutibilmente ai fraseggi che caratterizzarono il tocco del compianto Paul Kossof.

Get Back on it riporta la band in una zona in certo qual modo curiosa, a cavallo tra stoner e melodia, ma con una ritmica che fa l’occhiolino al funk, un po’ nello stile caro al Glenn Hughes solista, mentre la chiusura dell’album, affidata ad Always Alright è la più classica immaginabile: brano acustico, malinconico, che rappresenta un degno commiato e viaggia su coordinate delicate ed intimiste: batteria lineare, basso essenziale, chitarre dal tocco leggero, Neeson a fare da intenso narratore ed il tocco finale, dato dalle tastiere di Jonny Henderson e dai cori di Becca LangsfordElani Evangelou e Grace Lightman ad offrire quel sapore retrò che non guasta affatto.

Tra le note di copertina, una dedica: “Dedicated to the memory of Seán and Roseanne Heatley, George and Malcom Young. Gone but never forgotten”, che abbraccia due aspetti evidentemente assai cari alla band: la famiglia di origine (nello specifico quella del batterista James Heatley) e le influenze musicali giovanili, gli AC/DC, indubbiamente complici di quel furore artistico e musicale che, nella band nordirlandese, dopo due decenni di attività, risulta ben lungi dall’essersi affievolito.

(Golden Robot Records, 2023)

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