The Flower Kings – By Royal Decree

(Andrea Romeo)

La lunga pausa sta finendo, i palchi attendono e Roine Stolt avrà solo il problema, non secondario, di scegliere quale materiale proporre durante i concerti che The Flower Kings si apprestano a portare in giro; già perché dal 2019 ad oggi il chitarrista e compositore svedese ha messo in fila ben tre album, per un totale di cinquantaquattro brani, una mole di lavoro che per chiunque rappresenterebbe almeno una decina d’anni di carriera; pur essendo coinvolto anche in altri progetti, meno prolifici ma altrettanto impegnativi, come Kaipa Da Capo, Transatlantic o le esperienze one shot con Jon Anderson e The Sea Within, Stolt mostra una incredibile facilità di scrittura che, in un periodo simile, ha avuto modo di esprimersi senza freni.

Impreziosito ancora una volta dalla bellissima copertina ideata dall’artista Kevin Sloan, pittore e scultore nato a Des Moines, Iowa, ma che da tempo lavora a Denver, Colorado, By Royal Decree è, per certi versi, una sorta di passo indietro da parte di una band che, dopo due di lavori per alcuni versi innovativi e sperimentali, ha voluto tornare verso lidi più conosciuti, rielaborando l’inclinazione al prog settantiano in un contesto meno complesso: le diciotto tracce del doppio cd non sono lunghe, non ci sono suite e neppure minisuite a cui la band ci aveva abituato, ma brani semplici, per quanto possano esserlo esecuzioni che ribadiscono fantasia, perizia strumentale, scelte sonore ed arrangiamenti di un livello assolutamente superiore rispetto alla media.

La band si è riunita intorno alla metà del 2021 ai Fenix Studios, nel piccolo villaggio di Varnhem in Svezia, ambiente decisamente accogliente che ha consentito ai musicisti di lavorare in totale tranquillità: oltre a Roine Stolt, ecco i fidi Hasse Fröberg voce e chitarre, Jonas Reingold al basso, ed i due ultimi arrivati, Zach Kamins alle tastiere e Mirko DeMaio alla batteria, ai quali si è unito, ed è un gradito rientro, Michael Stolt al basso ed alla voce, che aveva lasciato la formazione nel lontano 1999; ai cori ritroviamo la voce di Jannica Lund, Rob Townsend, che Stolt e Reingold hanno avuto modo di conoscere bene suonando con Steve Hackett, offre i propri interventi al sassofono, Jonas Lindberg crea la notevole linea di basso all’interno di un’ anthemica Revolution mentre Aliaksandr Yasinski inserisce uno spensierato intervento del suo accordion durante una brillante e movimentata Letter.

L’apertura con World Gone Crazy offre l’esatta immagine di cosa ci si può attendere da questo lavoro: una certosina ricerca dei suoni, anzitutto da parte di Kamins, sempre attento a scegliere le programmazioni delle proprie tastiere adattandole alle differenti situazioni che gli si presentano, e dei due bassisti (più uno) che, oltre a dividersi i brani, li caratterizzano con stile e timbri differenti e peculiari; poi un uso elaborato delle voci (basta ascoltare The Soldier per cogliere gli intrecci vocali realizzati da Fröberg, dai fratelli Stolt e dalla Lund), una presenza discreta delle chitarre, mai eccessive e capaci di lasciare il segno con (relativamente) pochi ma decisivi interventi, insomma un lavoro davvero corale in cui ogni musicista contribuisce creando un insieme equilibrato che mantiene alta l’attenzione: brani come The Darkness in You hanno andamento ed intensità tali da toccare profondamente l’ascoltatore mentre altri pezzi, fra tutti We Can Make It Work, trasmettono invece un senso di allegria, una sensazione di festa, di spensieratezza che contribuisce ad evitare che l’album diventi troppo cupo o pensieroso; Mirko DeMaio, come si evince dalle note del booklet, ha dedicato Peacock on Parade “to the memory of Professor Neil Peart (1952-2020).

Volendo inquadrare questo lavoro lo si potrebbe tranquillamente definire vintage, non tanto per come suona, perché non si può certo considerare “vecchio” da quel punto di vista, quanto invece per come è stato impostato: pur nella relativa brevità dei brani le strutture e le parti strumentali sono state concepite alla vecchia maniera e cioè esaltando le sovrapposizioni tra strumenti, creando intrecci complessi ed articolati che si risolvono in tempi brevi, insomma un progressive rock (con influenze space rock, pop, folk, e venature blues e funk…) in versione compact: Time the Great Healer è un esempio indicativo di questo approccio che, in poco più di sei minuti, condensa una quantità incredibile di suoni, passaggi, fill, patterns, cambi di ritmo, situazioni, una struttura che, pur complessa, non rischia mai di essere eccessivamente pesante.

Per apprezzare appieno By Royal Decree varrebbe la pena di ascoltarlo in cuffia perché le sollecitazioni sono molte e così ricche da meritare di essere colte pienamente: l’intro di Silent Ways, appena un minuto, nella propria semplicità propone una così nutrita quantità di suoni da richiedere più ascolti per essere colta nelle sue sfaccettature.

Sempre in quest’ottica, vale la pena di considerare due brani che, uno dopo l’altro, rappresentano due facce profondamente differenti del suono dei Flower Kings, ovvero Moth e The Big Funk: tanto oscuro, cupo, con un piano ed un sax quasi dissonanti il primo, che narra di una leggenda dark appartenente a Port Plesant, Virginia, in cui si parla di una creatura, il Mothman, che causa sfortuna e tragedie a chi anche solo la intravede, quanto energico, vivace, a tratti addirittura epico, con passaggi quasi sinfonici ed aperture decisamente solari il secondo.

E se Open Your Heart è una prog-ballad tutto sommato abbastanza classica e Shrine un breve intermezzo esclusivamente pianistico a cura di Zach Kamins, la conclusiva Funeral Pyres torna per un attimo a quell’approccio di più ampio respiro per il quale la band ha spesso mostrato attitudine, segno che quest’album non vuole essere né un punto di arrivo definitivo, ma neppure una sorta di punto di partenza, bensì un momento di transito, durante il quale raccogliere le idee per rilanciare ancora la mano, quando i Re di Fiori torneranno sul tavolo per giocare la prossima partita.

(Inside Out Records/Sony Music, 2022)

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