Crows – Beware Believers

(Sandro Priarone)

Una pellicola, quelle di una volta a 35mm, un film macabro. Claustrofobico e inquietante. Oscuro sino a diventare crudele nella sua veemente forma ipnotica. La seconda prova dei Crows colpisce i contorni di una trama attuale, sociale, cruda nella propria angoscia, tanto evidente da non essere compresa pienamente.

Beware Believers è una sequenza che assorbe integralmente la radiazione bianca che lo investe, trasformazione violenta e funerea di una sintassi pronta a descrivere le ansie e le sommosse di oggi e di domani. Four-piece con sede a Londra, formati alla fine del 2010 con il nome di “Jim Crow & The Murders” hanno poi pubblicato i primi singoli digitali e forzato la struttura in paranoica radioattività post-punk. James Cox (vocals), Jith Amarasinghe (bass), Sam Lister (drums), Steve Goddard (guitars). Forse ingenerosamente accostati al “dopo punk”. Termine ormai generico in cui si include spesso l’indie o il sound pesante. Qui si respira l’odore acre delle batterie al litio incendiate, capaci di unire il suono gotico alla manualità metal, senza dimenticare fluorescenze rock garage.  Punk come se i Sex Pistols vomitassero addosso ai Black Sabbath. Vicini agli orgasmi supersonici di Uk Subs nei primi eighties, confusi con l’epico incedere degli Skids che pensano di essere i Joy Division. Belli e virulenti come gli amici Idles e Protomartyr mentre inseguono i conrappunti dissonanti della deturpata verve dei Fall. Non esistono più gli stupendi dandy che si pettinano nelle proiezioni fantastiche di Vienna, Parigi, Berlino. “La maggior parte dei temi dell’album proviene da ciò che stava accadendo nel mondo intorno all’estate 2019, il Covid non era nelle nostre vite e l’impatto maggiore era la Brexit e la follia che il governo ci stava facendo passare” (James Cox). Graffiante e rabbioso nel suo realismo fatalista e disilluso, l’album innesca furia pungente e tormentata. Nell’inesorabile mancanza di pietà della metropoli londinese o nel rifiuto dell’ideologia “Vote Leave”, l’omaggio a Daniel Johnston o la fragilità e la resilienza tratta da  “Milk and Honey” di Rupi Kaur. E ancora il serial killer americano H.H. Holmes o il disperato grido ripetuto “I left God out in the rain”.

Le canzoni sono come ricchi ornamenti con oro scuro e lamine preziose. Riproducono il post-vintage della psicosi umana coniugando melodie e riff di annientamento. Ondeggianti e chirurgici i Crows osservano la sulfurea disgregazione popolare, trasfigurando attraverso la sofferenza, la condizione e l’essenza. I titoli scivolano nell’abisso trafiggendo il cuore su un cono d’ombra ossianica: il dolore scorre animoso in Closer Still, Garden In England, Only Time, Slowly Separate, oppure nella grandiosa sinapsi ritmico-chitarristica di The Servant. Se la tensione si distende rieccheggiano desolazione e temi visionari; Meanwhile, Room 156, Moderation, il tono lugubre e ineluttabile di Healing, il collasso emotivo con Wild Eyed & Loathsome. Baratri iposonori per organizzare la durata dello spartito in cui si eleva la batteria-borg di Sam Lister. L’epilogo finale, Sad Lad, concede rintocchi espressionisti nella sfera androide, profanati da contorni sintetico-allucinatori.

Un disco per generazioni perse ed ermetiche. Lande mentali deserte, processate dal rumore più sprezzante in un elemento di incosciente sconforto.

(Bad Vibrations Recordings)

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