The Braen’s Machine – Underground

(Andrea Romeo)

Gli appassionati di colonne sonore, ma soprattutto i cinefili, conoscono molto bene Alessandro Alessandroni, e lo conoscono almeno per tre motivi: intanto perché, agli inizi della propria carriera, dal 1954 al 1956, affiancò, all’attività nel mondo del cinema, anche quella di corista nel gruppo vocale I 2 + 2 di Nora Orlandi che, in seguito, diverranno I 4 + 4 di Nora Orlandi, poi perché, nel 1962, fondò il gruppo musicale I Cantori Moderni di Alessandroni, evoluzione del Quartetto Caravels, in cui militarono, tra gli altri, Giulia De Mutiis, il soprano Edda Dell’Orso, Augusto Giardino, entrato nel 1966, Franco Cosacchi, Nino Dei, Enzo Gioieni e Gianna Spagnulo, e che collaborò alla realizzazione di numerosi dischi pop e di diverse notissime colonne sonore, ed infine per il suo caratteristico e celeberrimo “fischio”, che divenne assoluto protagonista in numerose pellicole di spaghetti western, musicate soprattutto da Ennio Morricone e Franco Micalizzi.

Ciò che è sicuramente molto meno conosciuto, ed è un vero peccato, è questo progetto one shot, The Braen’s Machine, che il compositore, direttore d’orchestra, arrangiatore e polistrumentista nato a Soriano nel Cimino nel 1925, mise in piedi nel Gennaio del 1971 all’interno del Sound Work Shop Studio di proprietà di Piero Umiliani, a Roma.

Vanno certamente rivelati alcuni dettagli, riguardanti un album che è rimasto per anni avvolto in un fitto mistero: Braen, altro non è che lo pseudonimo dello stesso Alessandroni, autore di quattro tracce, mentre Gisteri è il nomignolo che si era dato Rino “Oronzo” De Filippi, suo collaboratore ed autore delle restanti cinque tracce, nonchè supervisore musicale alla Rai durante gli anni ’60 e ’70: fu lo stesso Umiliani tra l’altro, ad occuparsi della produzione dell’album.

Band assolutamente minimale, almeno numericamente, ma con una carica espressiva che lascia davvero stupefatti: Alessandroni chitarrista elettrico, e solista, è una vera scoperta, ma lo è ancora di più la sua attitudine alla ricerca dei suoni: siamo nel 1971, l’era digitale è ancora di là da venire e la tecnologia riguardante gli effetti sonori sta muovendo appena i suoi primi passi, eppure il compositore romano esibisce una serie di distorsori, fuzz, reverberi, delay, chorus, flanger che lascia letteralmente di stucco, caratterizzando i singoli brani con scelte timbriche innovative.

Ed i suoi colleghi non sono certamente da meno, a partire dal batterista, Gegè Munari, che sfodera una serie di pattern strepitosi, che calzano a pennello in ogni passaggio, dalla marcia marziale di Military Police agli accenti su una scatenata Flying, dal funk quasi destrutturato di Imphormal alle percussioni in stile afro di Gap; al suo fianco, a formare una sezione ritmica di altissimo livello, il contrabbassista e bassista Maurizio Majorana, anch’esso in grado di sottolineature  a dir poco eccellenti: le linee di basso oscure, ipnotiche, quasi felpate, e decisamente avvolgenti di Murder e New Experiences, quest’ultima una vera miniera di suoni e di effetti, o il groove funk poderoso di Fall Out, rivelano un bassista che non ha davvero nulla da invidiare agli illustri colleghi protagonisti dell’epopea delle pellicole di genere blaxploitation.

Nascosto nell’ombra, ma capace di fare davvero la differenza a livello di tessitura melodica, e di cucire insieme il suono dell’intero collettivo Antonello Vannucchi che, con l’organo, i suoi synth ed il pianoforte, affianca Alessandroni in una ricerca sonora che ha davvero fatto scuola; se è vero che la filmografia italiana, ed in special modo quella “poliziottesca” e noir in generale, ha pescato a piene mani da questo genere musicale, è altrettanto indubbio che il recupero di queste sonorità, che ha visto protagonisti gruppi come i Calibro 35 ma anche diversi altri artisti che hanno ripreso questo approccio strumentale, magari anche solo campionandone i suoni, ed utilizzandolo in contesti addirittura differenti, ha permesso ad una intera generazione di musicisti di riscoprire coloro che si possono considerare i padri di questo genere, almeno in Italia, musicisti che svilupparono uno stile in contemporanea con i colleghi, soprattutto quelli americani, ma rimasti inspiegabilmente nell’ombra per decenni.

Le nove tracce contenute in Underground sono altrettanti quadri che rappresentano una serie di scene, perché la derivazione filmica di questi brani è del tutto evidente, e l’ambientazione alla quale si ispirano è chiaramente noir: atmosfere cupe, notturne, ritmi serrati, come la swingante Obstinacy, o la malinconica Description che chiude l’album, ma tutti i pezzi inclusi nella tracklist sono parte di un mosaico coerente, che racconta una storia e lo fa con perizia tecnica, capacità interpretativa ed una fervida immaginazione tradotta in musica, doti figlie dell’abitudine a lavorare su sceneggiature preparate, a cui era necessario cucire addosso un abito musicale adeguato.

A poca distanza dai leggendari studi della Rai di Via Teulada, all’interno dello studio di Umiliani, un’ottantina di metri quadrati ottimizzati per le registrazioni multitraccia, ed in presenza di apparecchiature sonore alcune delle quali del tutto pionieristiche, oltre che di una serie di strumenti etnici collezionati dallo stesso compositore fiorentino, si lavorava alacremente per realizzare le sonorizzazioni e per elaborare le colonne sonore di film e sceneggiati televisivi, ma c’erano anche il tempo e la possibilità di dedicarsi a realizzare qualcosa di differente e più personale; le registrazioni di questo lavoro non durarono probabilmente più di un paio di giorni ma il risultato, a distanza di oltre cinquant’anni, è davvero stupefacente: l’ambiente musicale italiano, all’epoca, era davvero avanti, ed il fatto che album come questo, che fu pubblicato ma soltanto in un centinaio di copie, non siano mai riusciti ad emergere dalla limitata nicchia delle library musicali in cui erano confinati, non può che lasciare davvero rammaricati i cultori, ma anche i semplici appassionati, curiosi di conoscere la storia di determinati generi musicali che, periodicamente, ritornano in auge.

Un album che si ascolta, ancora oggi, con estremo piacere, e tutto d’un fiato, e che ha retto magnificamente al passare degli anni.

(Liuto/Ishtar/Schema Records, 1971)

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