Steven Wilson – The Harmony Codex

Se c’è un musicista considerabile come divisivo presso il pubblico del rock e del prog, questo è sicuramente Steven Wilson: le sue produzioni come solista, con i Porcupine Tree, i No-Man, i Bass Communion, i Blackfield, hanno sempre creato un interesse enorme, e questo va senz’altro a suo merito, ma anche una serie di polemiche infinite, basate principalmente sul “quanto fosse cosa” l’album in arrivo, rispetto al genere al quale, nell’immaginario degli ascoltatori, avrebbe dovuto appartenere; ad alimentare, volutamente o involontariamente non è dato saperlo, questa discussione, il fatto che Wilson abbia sempre agito in maniera libera, quasi anarchica, comportandosi in maniera contraria a quanto, da parte degli appassionati, ci si possa attendere.

Alcuni esempi: i Porcupine Tree hanno avuto successo? Bene, congelati fino a data da destinarsi; i No-Man, o i Blackfield, rappresentano una novità? Non inflazioniamoli troppo anzi, lasciamoli un po’ in sospeso, e per la carriera solista il discorso si fa, se possibile, ancora più complesso perché nei sette album pubblicati a proprio nome dal 2008 ad oggi è agevole cogliere punti di contatto, ma ci si deve limitare a quello perché, di vere e proprie sovrapposizioni, neppure a parlarne.

Ed allora cosa attendersi dopo il controverso The Future Bites, pubblicato da Wilson nel 2021, se non un album totalmente differente, spiazzante, dai contenuti eterogenei, non certo un concept, per lo meno nel senso più canonico del termine, e difatti…

The Harmony Codex contiene dieci tracce che ridefiniscono, per l’ennesima volta, l’autore ed il musicista, ridisegnandone le caratteristiche e le peculiarità.

Prog, rock, pop, art-pop, elettronica, un eclettismo portato sino all’estremo, quasi a voler dimostrare, a sé stesso, al pubblico, ad entrambi, di non avere limiti da autoimporsi, né alcuna preclusione: Wilson non si ferma all’interno di un genere, casomai parte da esso per andare oltre e, per tale motivo, qualsiasi idea proposta merita attenzione e prospetta uno sviluppo che, lo porterà… da qualche parte.

A voler esagerare si potrebbe considerare questo lavoro una sorta di “best of”, ancorchè involontario, perché in trentasette anni di attività il musicista di Hemel Hempstead ha prodotto una quantità esagerata di musica ed è inevitabile che queste suggestioni appaiano, a tratti in modo velato, in altri passaggi più evidente, nelle composizioni.

E le si avverte immediatamente, a partire da Inclination, inusuale mix di elettronica, musica etnica e musica ambient, in cui il cantato appare solo verso la metà brano stesso, dopo una lunga intro totalmente a sé stante, per un pezzo che colpisce.

Ovviamente si cambia subito registro, perchè What Life Brings è una classica ballad alla Steven Wilson/Porcupine Tree, un salto nel passato di almeno trent’anni, passando però attraverso il periodo Blackfield, nè finisce qui perché la successiva Economies of Scale, primo singolo dell’album, arriva dritta dalla post-wave anni ’80 filtrata dall’esperienza Radiohead; Wilson non teme affatto l’accusa di aver captato suoni o strutture altrui, anche perché lo dichiara, spesso ed esplicitamente, essendo oltre che un autore, anche un grande ed onnivoro ascoltatore di musica.

Chi cercasse tracce di prog le troverà in Impossible Tightrope, il brano più lungo e volendo più vintage dell’intero lotto e sicuramente quello riferibile al periodo più fecondo dei Porcupine Tree, grazie a sventagliate di chitarra, atmosfere psichedeliche, ritmiche complesse e con i fiati di Theo Travis sugli scudi, mentre i passaggi di pianoforte che caratterizzano la parte centrale sono palesemente i figli di The Raven That Refused to Sing (And Other Stories) e di Hand. Cannot. Erase.

Quattro brani, quattro direzioni differenti, ma non finisce qui: Wilson ama, e lo dichiara spesso, la musica pop, e quindi ecco Rock Bottom, in cui si rinnova la collaborazione con Ninet Tayeb e che, se non è strettamente un brano pop, gli strizza l’occhio da vicino, dopodichè si cambia di nuovo, e ci si riavvicina ai Porcupine Tree dell’ultimo periodo, quelli più scarni ed oscuri, grazie a Beautiful Scarecrow, brano spigoloso, andamento irregolare, dalla scrittura e dall’arrangiamento davvero notevoli.

La titletrack è una sorta di minisuite che descrive un viaggio, onirico più che fisico, un brano che rimanda a certe atmosfere dei Tangerine Dream, dei Gong, ma soprattutto ad alcuni lavori solisti di Tim Blake.

Mescolare elettronica e strumenti acustici è diventata, nel tempo, una costante abbastanza frequente nei brani di Wilson, ed ecco che ciò accade ancora, nella successiva Time is Running Out: pianoforte nell’intro, poi un pattern di drum machine su cui si appoggiano tastiere e cori, il tutto reso attraverso un equilibrio di suoni, ed una dinamica ritmica, che vanno assorbiti lentamente per essere compresi.

Actual Brutal Facts rimescola ancora le carte, parte come un brano d’atmosfera, su cui si innesta una ritmica trip-hop che rende l’insieme cupo, oscuro, per certi versi quasi lugubre, grazie anche ad un cantato tra il sussurrato ed il vero e proprio parlato, a cui si alternano passaggi di synth scarni e spigolosi.

L’album si chiude con un brano che rappresenta la summa di quanto ascoltato: in Staircase, alla traccia elettronica si sovrappongono due batterie, il basso monumentale di Nick Beggs, un cantato ispirato e passaggi chitarristici e tastieristici evocativi e fluidi, che regalano all’insieme una considerevole scorrevolezza.

A quali conclusioni giungere, quindi, dopo aver ascoltato The Harmony Codex? Steven Wilson resta sempre fedele a sé stesso, al proprio imprinting, alle proprie origini ed alle proprie radici musicali, conferma di avere pochi rivali a livello di songwriting, di arrangiamento e, in generale, di “percezione dei suoni” ma soprattutto ribadisce un fattore che, nonostante tutto, resterà divisivo nei confronti sia della critica che del pubblico: la tecnica, piaccia o meno, è fattore dirimente quando si tratta di spostare l’asticella anche solo un pochino più in alto.

E, si badi, non si parla di tecnicismo fine a sé stesso, ma della capacità di evolversi nell’approccio musicale, e strumentale, creando dinamiche differenti, anche solo parzialmente innovative, ma in grado di innalzare il livello dell’insieme.

E questo si può fare anche gettando un occhio al passato, che offre sempre spunti interessanti, ma cercando nel contempo di andare oltre: l’interesse suscitato da musicisti come Wilson risiede soprattutto nel fatto di non offrire mai quanto gli viene indirettamente richiesto ma quanto, a lui, sorge spontaneo proporre.

(Virgin Music Group, 2023)

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