Nick Drake – “Pink Moon”

(Massimo Tinti)

Sono le due di notte del 1 novembre 1971; Nick Drake posa la chitarra a terra. Quella bella cosa che è “Pink Moon” ora è nelle mani di John Wood, il tecnico delle registrazioni. Drake ha fatto fatica a cantare e suonare insieme, ma per ventotto minuti c’è riuscito, per undici canzoni. Per tutto il tempo John Wood, la sola unica persona con Nick dentro i Sound Techniques di Londra, ha spostato i microfoni, ha avvicinato Drake al muro, lo ha fatto suonare in piedi e poi seduto. Sembrava volesse catturarla viva quell”onda che usciva dalla chitarra di Nick, portarla a se coi piedi ancora scalzi e il respiro accellerato di una creatura appena nata e già incantevole.
Drake si danna perché commette errori mentre suona, perché le unghie si spezzano, perché il suo amico e produttore Joe Boyd è dall’altra parte dell’oceano, ben vestito dentro una vita completamente diversa. Vorrebbe non essere visto nemmeno da Wood mentre suda Nick, mentre sta a colloquio con se stesso e balbetta, mentre non trova il modo di far intendere la chitarra con la voce, le cose visibili con quelle che non ci sono. Ma anche così è un uomo perfetto, un uomo superiore; anche quando le corde della sua Martin si rompono due o tre volte mentre fa “Horn”, anche quando vacilla e quasi preferisce il male di andarsene al bene di resistere.
Il potere annullante della depressione è li insieme a Nick, la sua ombra sulla parete, una sagoma nera e ruvida con i capelli unti, la mani sporche di nicotina, la cenere sui pantaloni. Sembra non saperlo Nick che fuori c’è il mondo, dove la gente ha pensieri deliziosi, dove le labbra mostrano sorrisi e naturalmente ognuno prova a vivere, ad invecchiare, a sognare qualcosa di straordinario.
Immersa nel silenzio parte “Things Behind The Sun“, poi “Place To Be“, “Road“, “Free Ride“, “Pink Moon” con qualche nota di pianoforte, le altre; ognuna con una struttura completamente diversa, con Drake che entra con la sua voce intima, vicina, fregandosene del giro della chitarra, quasi sempre tra due accordi creando straniamento, stupore, mistero.
Ha male dappertutto Nick appena ha finito le note, terminato le parole; nelle dita che hanno suonato divinamente nonostante tutto, nella bocca amara che ha masticato il fumo del tabacco e della solitudine, nel cuore che come un pallone è stato calciato via.
Drake vuol sapere da Wood se in realtà tutto è stato registrato, se si vedono bene le persone dentro “Pink Moon”, quelle di una vita che sono cresciute e andate via, se si sente il pandemonio della fame, della terra gelata, della pioggia, della siccità.
Wood guarda quell’omone enorme con le spalle curve, bellissimo, e non ce la fa a rompere il silenzio, a salvargli l’anima, ad abbracciarlo in quel posto lontano dove è finito.
Drake se ne va fuori tra i cani randagi, con il suo cappotto bucato, in mezzo alla nebbia che non fa vedere le stelle chiare, quel poco di luna prima che tramonti.

Qualche mese dopo esce il disco, esce “Pink Moon”; una conversazione folk fatta da un poeta che muore qui una prima volta, morso dappertutto e da chiunque senza ricordare dove di preciso, soprattutto nel bordo della sua intimità, fin dentro quelle rose senza spine che erano e ancora sono le sue canzoni.

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