Massimo Urbani Quintet – 30

Scrivere di Massimo Urbani, sassofonista geniale, estroso, a tratti addirittura esagerato, per non dire torrenziale, significa dover fare i conti con un fortissimo senso di malinconia che riguarda la sua vicenda umana, prima ancora che artistica, ciò che è stata la sua carriera, ma soprattutto ciò che avrebbe potuto, anzi dovuto, essere.

Perché il nome del ragazzino, nato a Roma, quartiere di Primavalle, nel 1957 e che grazie ai dischi del padre, appassionato di jazz, aveva iniziato con il clarinetto ad undici anni per poi passare al sax, tenore e contralto, iniziò a circolare per la capitale già a partire dal 1971: lui era “quello che suonava come gli americani”.

Lo notarono musicisti di grande spessore: Mario Schiano, che lo portò ad esibirsi al Folkstudio, Giorgio Gaslini, che lo fece suonare dal vivo e sugli album Favola Pop e Message ed infine Enrico Rava, che lo “rubò” al maestro milanese per inserirlo nel proprio quartetto e lo portò anche negli Stati Uniti, dove fece un certo scalpore; insomma, una partenza davvero con il botto, un astro che, più che nascente, si poteva già considerare splendente, nell’ambito del panorama jazzistico italiano.

Chi lo conobbe lo definì simpatico, molto intelligente e generoso, ma le doti che lo resero un vero e proprio fenomeno musicale furono senza dubbio il suo piglio irruento, aggressivo, privo di qualsiasi mediazione, perchè Urbani era un sassofonista quasi naif, con una carica espressiva che esprimeva attraverso un solismo quasi esagerato: il suo amore per Charlie Parker, Gato Barbieri, Lee Konitz, John Coltrane, Eric Dolphy, Ornette Coleman ed Albert Ayler fece in modo che, letteralmente, assorbisse l’estro di questi giganti e lo restituisse con un impeto fuori dal comune.

Non aveva ancora diciotto anni quando incise Jazz a confronto 13, primo lavoro solista, ed in quel momento il jazz italiano scoprì di avere tra le mura di casa un vero e proprio talento, un improvvisatore geniale che, grazie anche a basi tecniche assolutamente solide, riusciva a generare un flusso di idee pressochè inarrestabile.

Il pianista Paolo Tombolesi ricorda: “Più della forma si preoccupava della possibilità di esprimere sentimenti, non era interessato ad approfondire i problemi della composizione o dell’arrangiamento, nemmeno dell’organizzazione del gruppo. Quando suonavo con lui non diceva nemmeno i titoli, cominciava con un tema e noi dovevamo andargli dietro: se non lo conoscevamo non si arrabbiava, cambiava tema finchè non riuscivamo a suonare con lui; è un modo di fare degli improvvisatori americani, che lui amava.” Era una persona semplice, che veniva dalla strada, totalmente dedito alla musica e, per certi versi, goffo, incapace di fare altro: Enrico Rava sottolinea: “Era incapace di fare qualunque cosa con le mani tranne suonare: col sassofono in bocca diventava una persona di un’abilità mostruosa.

Tra il 1974 ed il 1975 imboccò una spirale di tossicodipendenza che influì pesantemente su una carriera in piena ascesa, anche se il mondo del jazz, che voleva bene a quel ragazzo così semplice e fragile, cercò di aiutarlo permettendogli di suonare per un ventennio: apparve in numerosi album, collaborò con il gruppo Anamorfosi, insieme ad Antonello Salis con cui suonò tra il ‘75 ed il ‘77, affiancò Lester Bowie nel ‘77, Chet Baker nel ‘78, Larry Nocella dal 1980, Franco D’Andrea, il Saxophone Summit ed il quartetto di Enrico Pieranunzi, nel periodo 1980-81.

Suonò parecchio dal vivo e la testimonianza di questa intensa attività si può trovare nei numerosi album pubblicati postumi in cui, a prescindere dal tipo di proposta musicale, Urbani riusciva con una scioltezza inaudita ad inserire il proprio virtuosismo.

L’album recentemente pubblicato, 30, registrato alla Tavernetta di Via Sampieri, 3, a Bologna, il 15 Dicembre del 1981, in cui lo affiancano Pietro Tonolo al sax tenore, Riccardo Zegna al piano, Luciano Milanese al contrabbasso e Gianni Cazzola alla batteria, rappresenta la riprova di quanto esplosivo e fuori dal comune fosse il talento di Massimo Urbani: i cinque standard eseguiti, I’ll Remember April di De Paul, Blue Train dell’adorato Coltrane, Blue ‘N’ Boogie di Gillespie e Paparelli, Recorda Me di Joe Henderson ed infine Snappin’ Out di Hank Mobley, vengono afferrati, dilatati, rimescolati e, laddove Urbani si prende autorevolmente i propri spazi solisti, ne lascia altrettanti ai quattro compagni che hanno così modo di esprimere un groove ed un sound incisivi, ispirati e capaci di una lucidissima fluidità esecutiva.

La carriera di Massimo Urbani non fu sempre così lineare ed incisiva, perchè ci furono pause, sparizioni e riapparizioni, ma ciò che mancò davvero furono probabilmente proprio la capacità, o la condizione, di poter scegliere una direzione e di perseguirla con chiarezza, ed il tempo: Urbani attraversò quegli anni come una scheggia impazzita, in grado di produrre momenti sublimi alternati ad altrettanti passaggi a vuoto.

Nella notte fra il 23 ed il 24 Maggio del 1993, dopo una settimana in cui si era esibito all’Alexander Platz Jazz Club di Roma insieme ad Andrea Beneventano, Dario Rosciglione, Gegè Munari e Red Rodney, a bordo di un’ambulanza che lo stava portando all’ospedale San Filippo Neri un collasso, dovuto all’ultima overdose di eroina, interruppe, a trentasei anni, la sua vita e la sua storia, quella di un musicista che ancora oggi, a trent’anni di distanza dalla prematura scomparsa, viene considerato anche a livello internazionale un vero e proprio genio della musica jazz.

La malinconia cui si accennava è dovuta proprio alla considerazione di quanto sia stato limpido il talento di Urbani e di quanto avrebbe potuto esserlo ancora, e la definizione che meglio gli si addice, e ne sintetizza la parabola, riportata da numerosi addetti ai lavori, è forse questa: “Massimo Urbani è stato un lampo che ha illuminato a giorno le notti del jazz italiano; dotato di un talento puro, e di una fervida vena creativa, è stato uno dei più grandi musicisti jazz mai apparsi in Italia.

Ed anche la copertina di 30, nella sua delicata semplicità, racconta molto di lui, di che persona fosse, ma anche del suo brillante viaggio musicale, interrotto anzitempo.

(Red Records, 2023)

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