Leonard Cohen – Live in Dublin

(Andrea Romeo)

Dublino, 02 Arena, 12 Settembre, 2013… Leonard Cohen registra per l’ultima volta un intero show dal vivo (Can’t Forget: A Souvenir of the Grand Tour, uscito nel 2015, è una raccolta di brani live, ma eseguiti in differenti spettacoli…) che diventa una sorta di testamento spirituale perché in Live in Dublin, il cantautore canadese condensa, in trenta brani, tutti i suoi sessant’anni di carriera.

Una carriera, ed una vita, né semplici né lineari, durante le quali ha sperimentato, ed ha prima scritto e poi cantato, religione, politica, isolamento, depressione psicologica, sessualità, aborto, senso di perdita, amore, morte e relazioni affettive, un universo dell’anima che lo ha attraversato, avvolto, spesso tormentato e del quale è divenuto una sorta di narratore angosciato, a tratti quasi terrorizzato dalla necessità e dall’urgenza di farsi comprendere; è sua l’affermazione: “Vorrei dire tutto ciò che c’è da dire in una sola parola. Odio quanto può succedere tra l’inizio e la fine di una frase.

Quindici album in studio, otto dal vivo, una decina di raccolte rilevanti per dire che Cohen non è mai stato un centometrista della canzone, ma più una sorta di maratoneta, che si è preso sempre il tempo per realizzare lavori che sfuggissero alla banalità del mercato, paradossalmente creandosene uno composto da tutti coloro che, nella musica, ricercavano quella profondità, quell’attenzione, quella capacità di cogliere i minimi dettagli che l’artista, nato a Montreal nel 1934, non ha mai lesinato.

Autore, cantante, poeta, dotato di una voce simile ad un “rasoio arrugginito” che lui stesso, in fondo, amava: “Sono nato così, non avevo scelta, sono nato con il dono di una voce d’oro…”, cantava in Tower of Songs, che poi è uno dei trenta brani che ha presentato al pubblico irlandese durante questo show, brani che, ognuno in modo differente, raccontano qualcosa di sé, che sia reale o anche solo mediato.

PARIS, FRANCE – JUNE 18: Leonard Cohen performs at Palais Omnisports de Bercy on June 18, 2013 in Paris, France. (Photo by David Wolff – Patrick/Redferns via Getty Images)

Suzanne, ispirata dalle sue visite alla ballerina Suzanne Verdal, Chelsea Hotel # 2 che ritrae la sua breve relazione con Janis Joplin, Famous Blue Raincoat, la lettera di un uomo al suo migliore amico, con cui sua moglie lo ha tradito tempo prima, So Long Marianne, che tratta apertamente della tormentata fine del rapporto tra Leonard Cohen e la modella svedese Marianne Ihlen alla quale, sapendola in fin di vita, scrisse queste parole: “Carissima Marianne, sono appena dietro di te, così vicino da poterti prendere per mano. Questo vecchio corpo si è arreso, proprio come il tuo, e l’avviso di sfratto arriverà da un giorno all’altro. Non ho mai dimenticato il tuo amore e la tua bellezza. Ma questo già lo sai. Non ho altro da aggiungere. Fai buon viaggio, amica mia. Ci vediamo in fondo alla strada. Amore e gratitudine. Leonard.

Ed ancora la celeberrima Hallelujah, frutto di oltre due anni di lavoro, come lo stesso Cohen riferì a Bob Dylan, nel backstage di un concerto, e della quale disse lui stesso: “Avevo riempito due blocchi degli appunti e ricordo che ero al Royalton Hotel, seduto in mutande sul tappeto, mentre sbattevo la testa sul pavimento dicendomi “Non riesco a finire questa canzone.”: ci pensò, dieci anni, dopo un’altra anima tormentata, Jeff Buckley, ad offrirne una versione di straniante bellezza.

Sul palco Cohen è spiritoso, anche se a tratti quasi distaccato, non è un crooner perché non spinge sul sentimentalismo, in un certo senso suscita i sentimenti stessi, ma anche domande e curiosità, nell’audience: Who by Fire tratta dell’ebraismo, con The Partisan riprende una canzone francese sulla resistenza di Anna Marly ed Hy Zaret, schierandosi con i più deboli, gli oppressi, come in Dance Me to the End of Love, che apre lo show, di cui narra lui stesso: “Mi è venuta in mente ascoltando o leggendo o sapendo che nei campi di concentramento, vicino ai forni crematori, in alcuni di questi campi, un quartetto d’archi era obbligato ad esibirsi mentre l’orrore veniva perpetrato, queste erano persone il cui destino faceva parte di quell’orrore. E suonavano musica classica mentre i loro compagni di prigionia venivano uccisi e bruciati.

Take this Waltz è una traduzione libera della poesia Pequeño Vals Vienés del poeta spagnolo Federico Garcia Lorca, Bird on the Wire venne scritta durante la permanenza nell’isola di Idra, dove Cohen viveva con Marianne, e terminata in un motel, a Hollywood, nel 1969, Alexandra Leaving è ispirata alla poesia Απολείπειν ο θεός Αντώνιον (“La Divinità Abbandona Antonio“) del poeta greco Konstantinos Kavafis, pubblicata nel 1911, Come Healing rappresenta la visione di Cohen nei confronti di Dio, e della vita, ma in un senso alto, quasi che terra e cielo, corpo e spirito, si avvicinino e scoprano di avere molto in comune.

Ogni brano di Cohen ha un riferimento personale, culturale, sensoriale, ed anche i brani tratti da altri autori, oppure scritti insieme ad altri soggetti, non gli sono mai estranei ma vanno ad inserirsi nel suo universo, diventandone parte integrante.

Accompagnato da Roscoe Beck, bass, vocals, Neil Larsen, keyboards, accordion, Rafael Gayol, drums, percussion, Mitch Watkins, guitars, vocals, Javier Mas, guitar, laud, archilaud, banduria, Alex Bublitchi, violin, Sharon Robinson, vocals, Charley Webb, vocals, clarinet, guitars ed Hattie Webb, vocals, harp, Cohen racconta, e si racconta, intrattiene, riflette, scherza, ammicca, rivelando ma anche lasciando in sospeso pensieri, cosicchè l’immaginazione degli ascoltatori possa prenderne possesso.

Lo show si avvia alla conclusione sulle note di Save the Last Dance with Me, cantata in coro da un pubblico entusiasta, partecipe e pienamente consapevole di trovarsi a vivere un vero e proprio evento: un inchino, la mano sull’immancabile cappello, che poi si toglie, portandolo al petto, mentre l’ovazione che gli viene tributata sembra non voler terminare mai, un sorriso appena accennato, gentile, grato, solo appena malinconico e poi il saluto rapido, timido, quasi a non voler essere troppo coinvolto in un momento che, Cohen stesso, forse, preferisce portare dentro di sé.

Poco più di tre anni dopo, ed a soli tre mesi di distanza, raggiungerà altrove la sua indimenticata Marianne.

(Sony Music, 2014)

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