ANote Music: siete pronti a investire nella musica?

“La cosa più importante da capire quando si parla di musica è che si va ad investire su flussi finanziari che derivano da un’abitudine della gente, dall’abitudine ad ascoltare musica. In particolare, l’abitudine ad ascoltare, spesso e volentieri, sempre le stesse canzoni”. (cit. Marzio F. Schena – CEO e cofondatore di ANote Music)

Pensare alla musica, per la maggior parte di noi significa associare i brani che ascoltiamo a sentimenti ed emozioni, perché è proprio quando ascoltiamo le “nostre” canzoni che ricordiamo momenti e parti della nostra vita che rimarranno per sempre nella nostra memoria.

Tuttavia, c’è un altro modo di approcciarsi alla musica e, più in generale, alle canzoni.

Nella mia intervista a Marzio F. Schena, CEO e cofondatore di ANote Music, abbiamo parlato di come le canzoni possano diventare un nuovo modo per diversificare i propri investimenti, del suo punto di vista sull’impatto dell’Intelligenza Artificiale nel mondo della musica e del fatto che la gente si scandalizzi ancora quando si parla di “musica” associata a “investimenti”.

Siete pronti a investire nella musica?

D.: Prima di parlare di ANote Music, vorremmo conoscerti un po’ di più. Raccontaci la tua storia, il percorso che ti ha portato alla creazione di questa piattaforma e, soprattutto, da dove nasce la tua passione per la musica.

M.S.: Mi chiamo Marzio. Sono milanese di origini e ho una formazione finanziaria. Prima di creare ANote ho studiato Finanza. Ho lavorato anche in Risk Management, come gestore di un fondo in Lussemburgo e in Investment Banking a Parigi. Insomma, ho sempre lavorato avendo un approccio molto, molto quantitativo nel mondo finanziario. Nel 2017, ascoltando Sanremo, il festival che è un po’ la nostra storia, con un mio amico, nonché ex compagno di liceo, che si chiama Matteo ed è oggi uno dei co-fondatori di ANote, avremmo voluto scommettere sulla canzone di Gabbani come vincitrice. Ci siamo resi conto, però, che, all’epoca, non esisteva alcun modo per scommettere o investire in musica o in canzoni. Al momento, ci siamo anche dimenticati della cosa, finché Gabbani effettivamente ha vinto Sanremo. È allora che abbiamo iniziato a pensare seriamente ad un modo per investire nella musica, nei brani, ovvero ad un modo per comprarne una parte dei diritti. Questo, perché, il mondo musicale è un mondo che ti permette di avere un payoff non solo nel momento in cui un brano viene pubblicato ma anche nel tempo. Facendo un po’ di ricerca, abbiamo scoperto che, dietro le quinte, effettivamente esiste il mondo della compravendita dei diritti musicali. Anzi, ci si siamo resi conto che il mondo musicale ha proprio questo come proprio fondamento. La creazione di un brano musicale è un’azione di concerto tra chi scrive le parole, chi canta la canzone, l’editore, le etichette ecc. Ogni volta, quindi, che c’è un’unione di forze diverse di persone per creare una canzone, c’è una compravendita, una condivisione di diritti che poi, continuamente, vengono scambiati, ad esempio quando un’etichetta li cede ad un’altra etichetta. Abbiamo semplicemente scoperto che il mondo musicale già funzionava così e abbiamo pensato di aprirlo al pubblico, cioè di dare la possibilità a chiunque di prendere un pezzettino di una canzone, in un modo molto simile a ciò che avviene nei mercati tradizionali, dove chi possiede un’azione ha diritto ai dividendi. In questo caso avviene la stessa cosa: quando si acquista un pezzettino di una canzone, cioè una quota, chi acquista ha diritto alla royalties che la stessa genera nel corso del tempo.

D.: ANote Music: come ti è venuta questa idea e come si è evoluta nel tempo? E perché la scelta di Lussemburgo?

M.S.: Abbiamo scelto Lussemburgo perché, all’epoca, tutti e tre lavoravamo in Lussemburgo. Io, in particolare, lavoravo per un fondo di investimento UCITS lussemburghese, Matteo lavorava presso EY come consulente e Greg, che rappresenta la parte tecnica ed è il terzo co-fondatore, lavorava presso LuxTrust. Dopo una serie di incontri, di intenso lavoro e di notti insonni per studiare il mondo musicale, l’idea si è trasformata in realtà. Lussemburgo, con la poca esperienza che comunque avevamo come imprenditori, ci sembrava una scelta valida per creare impresa, soprattutto perché il Paese è situato al centro dell’Europa e non si viene, quindi, identificati come un player “italiano* o un player “francese”, ma si ha una dimensione davvero “europea”. Creare impresa in Italia è difficilissimo, soprattutto se poi vuoi esportare all’estero. La tua visione e il tuo mercato rimangono italiani. La cosa bellissima di Lussemburgo è che tu sei europeo. Hai un’azienda che immediatamente si pone come azienda europea e non hai come riferimento il mercato lussemburghese che, comunque, rimane abbastanza inesistente, ma l’intero mercato europeo. La nostra grande fortuna è stata quella di trovarci nel posto giusto.

D.: ANote Music è una piattaforma che prevede un mutuo vantaggio per gli artisti e per gli investitori. Perché gli artisti dovrebbero avere interesse a vendere i diritti del proprio catalogo? E qual è il potenziale interesse degli investitori?

M.S.: È una domanda che ci è stata posta tante volte, soprattutto all’inizio. E, all’inizio, non avevamo nemmeno una risposta. La risposta è che l’interesse per gli artisti esiste e consiste nella monetizzazione delle royalties. Tornando a quanto detto prima, abbiamo scoperto che il mondo musicale già funzionava e funziona in questo modo. Noi non lavoriamo solo con artisti. Noi lavoriamo con chiunque abbia dei diritti musicali. Si può trattare dell’autore del brano, di chi ha scritto le parole o di chi ha scritto la melodia, l’artista stesso, l’editore, l’etichetta discografica, il produttore. Ci sono tanti player che detengono diritti musicali, a seconda della loro forza contrattuale. Ci siamo resi conto che non dovevamo essere noi ad andare a chiedere se fossero interessati, ma erano proprio loro a venire da noi, perché le transazioni nel mondo musicale avvengono con o senza ANote. È molto facile per un artista andare a cedere o avere ceduto e poi ritornare in possesso dei propri diritti. Questo è di fatto il modo in cui funziona la nostra piattaforma: le diverse controparti vengono da noi e ci chiedono una valutazione per la cessione dei loro diritti. Noi offriamo una piattaforma per soddisfare un mercato esistente con controparti differenti in maniera liquida. Queste transazioni avvengono perché sono transazioni monetarie. Il ritorno per un artista può essere ingente, perché quando cede le royalties relative al proprio catalogo cede una rendita. Dall’altra parte, quindi, un gruppo di Wealth Management, così come magari un investitore retail o un fan potrebbero essere interessati ad avere un pezzettino dei diritti di una canzone e ricevere royalties per tantissimi anni.

D.: Spiegaci che cosa sono e come funzionano le royalties musicali.

M.S.: Le royalties musicali sono il beneficio economico che deriva dallo sfruttamento della proprietà intellettuale, in questo caso specifico di un brano musicale. Le royalties vengono generate perché la gente ascolta musica. La cosa più importante da capire quando si parla di musica è che si va ad investire su flussi finanziari che derivano da un’abitudine della gente, dall’abitudine ad ascoltare musica. In particolare, l’abitudine ad ascoltare, spesso e volentieri, sempre le stesse canzoni. Per farti un esempio, io stesso ascolto le stesse canzoni che ascoltavo dieci anni fa. Sono molto abitudinario: ascolto tantissimo jazz e, quando lavoro, tantissime colonne sonore. Verso la primavera comincio ad ascoltare canzoni italiane. Verso maggio e giugno, techno e a settembre torno su canzoni più tranquille. Un investimento in royalties musicali è un investimento nella psicologia della gente, basata sul fatto che le abitudini di consumo della gente rimangono abbastanza uguali nel tempo. Bisogna anche considerare il fatto che le abitudini musicali non siano correlate ai mercati finanziari. In aggiunta, si tratta di un mercato in crescita, perché sempre più gente ascolta in streaming ed è disposta a pagare un abbonamento per usufruire di questi servizi. A differenza dello streaming video, poi, dove ogni piattaforma offre contenuti particolari diversi dalle altre, per lo streaming musicale basta una sola piattaforma, ad esempio Spotify. Da ultimo, c’è anche la componente del “reddito passivo”, grazie alla scoperta che i rendimenti nel mondo musicale sono compresi tra il 6% e il 16% cash on cash.

D: Nel 2021, l’accordo siglato da ANote Music con Artist First riguardante i diritti d’immagine de Le Vibrazioni aveva creato molto scalpore. Poco tempo fa, avete annunciato l’offerta dei “Music Royalties Enhanced Strategy Certificates (MRESC)” agli investitori professionali e il raggiungimento di 3.3 mio euro di funding. Questo è stato forse un po’ il simbolo dell’evoluzione che c’è stata in ANote. Cosa sono e come funzionano questi certificati?

M.S.: I certificati sono degli strumenti che danno esposizione all’investitore che li detiene a una strategia di investimento in un portafoglio diversificato di royalties musicali che vengono scambiate sulla piattaforma di ANote. Possono essere definiti come una versione 2.0 dei “Bowie bonds”. Parliamo, quindi, di veri e propri strumenti finanziari che hanno come sottostante un bacino di royalties. Sono strumenti aperti esclusivamente ad investitori professionali, con un ticket di investimento superiore a 125.000 euro per singolo investitore. I rendimenti che ne derivano sono quelli da royalties generate dall’acquisto di quote sulla piattaforma di ANote. Questi certificati ci permettono di arrivare ad una clientela estremamente diversificata che comprende anche il mondo dei Family Office, o ancora settori diversi rispetto a quello della nostra community. Abbiamo, quindi, le “fan base” in cui c’è interesse ad avere un pezzettino delle royalties del proprio artista preferito, investitori più retail e i Family Office che, ovviamente, non entrano su una app per effettuare i propri investimenti.

D.: Perché, quindi, c’è ancora chi si scandalizza se Goldman Sachs pubblica ormai da alcuni anni il report: “Music in the Air” focalizzato sull’analisi del mercato musicale o, ancora, se Reuters conia un nuovo termine “Bey-flation”, parlando dell’aumento dell’inflazione causato in alcuni Paesi (es. Svezia o UK) dal prezzo dei biglietti dei concerti?

M.S.: Grazie davvero per questa domanda. Il tema è sicuramente molto interessante. Per risponderti mi vengono in mente un sacco di spunti. A mio parere, si tratta di uno scandalizzarsi un po’ a singhiozzo, perché ci si scandalizza di una cosa e poi ci si scandalizza dell’esatto contrario.  Da quando non si vendono più i CD, il mondo musicale ha attraversato una depressione incredibile. Dal 1999 al 2014 c’è stata una vera e propria “caduta libera” in quanto non si vendevano più CD e tutti “piratavano”. Non c’era alcun paracadute. Per questo, il mondo musicale ha provato un po’ a muoversi verso l’industria dei “live”, perché comunque ci si rendeva conto che la gente continuava ad andare ai concerti. Il comparto dei “live” è l’unico ad essere cresciuto molto in quei quindici anni. Per quindici anni, l’intero settore musicale ha attraversato una fase di depressione. Ad un certo punto è arrivato lo streaming. Tuttavia, lo streaming è sempre stato visto come un “bracciolo” più che come un vero e proprio salvagente perché l’artista, per ogni singolo ascolto, veniva pagato in media 0,006 euro. Da una parte, quindi, ci si scandalizza perché nell’industria musicale non si paga abbastanza. Fino a quattro mesi fa, poi, ci si scandalizzava perché Spotify aveva mantenuto invariato il proprio pricing dal 2015 al 2023 (9,99 Euro/mese). L’inflazione esiste ma dal punto di vista del “live”. Per i promoter di concerti, anno dopo anno, diventa sempre più difficile attrarre artisti importanti, perché chiedono sempre di più in termini economici. Ci sono certamente tante tematiche differenti da considerare. Il tracciamento di Goldman Sachs nel report “Music in the Air” più che sul livello di inflazione è focalizzato sull’aumento dei volumi di ascolto. Resta certamente il fatto che l’industria dei “live” sta attraversando una fase determinata da prezzi esorbitanti.

D.: Un altro tema, legato alla musica, ma non solo, di cui si parla molto è quello dell’utilizzo dell’Intelligenza Artificiale. Parlando di musica, infatti, entra in gioco anche il tema dello “human touch”, cioè la componente umana. Fino a che punto, quindi, ci si può spingere nell’utilizzo dell’AI? Qual è la tua visione su questo tema? Esiste un limite invalicabile? E, soprattutto, qual è, dal tuo punto di vista, il contributo che l’AI può dare alla musica?

M.S.: Da un certo punto di vista sono estremamente spaventato dall’intero argomento relativo all’Intelligenza Artificiale, perché crea una quantità di incertezze che vanno effettivamente ben oltre il mondo musicale. Adesso ci si spaventa perché l’Intelligenza Artificiale sta andando a toccare dei settori che prima si pensava fossero intoccabili. Tutti i settori sono interessati dall’impatto che potrebbero avere lo sviluppo e l’utilizzo dell’AI. Nel mondo musicale, però, chiunque ha un incentivo ad evitare che ci sia un’inondazione di testi creati da una Intelligenza Artificiale, anche le major discografiche. Ci sarà sicuramente un’autoregolamentazione e, in parte, lo stiamo già vedendo con YouTube che sta siglando accordi con le major. Ci si troverà sicuramente di fronte a un’evoluzione a livello legale andando a determinare – e questo, ovviamente, è il mio punto di vista – il concetto di “diritto alla voce”. Tuttavia, anche prima dell’arrivo dell’Intelligenza Artificiale, Spotify aveva superato la barriera delle 100.000 nuove canzoni caricate giornalmente. I report relativi agli ascolti hanno mostrato che la maggior parte di questi brani non aveva neanche un ascolto e che solo una percentuale piccolissima effettivamente veniva ascoltata. Il mondo musicale, quindi, è già da tempo inondato da una quantità enorme di produzione nuova. E, alla fine, come è sempre stato, è il pubblico che va a determinare se una canzone funziona oppure no, indipendentemente da chi l’abbia creata. Noi, con ANote come piattaforma di investimento e di trading, ci poniamo a valle. Abbiamo una semplicissima barriera all’ingresso: la canzone deve avere almeno tre anni di vita. Se dopo tre anni di vita, la canzone ha un certo numero di royalties che ammontano a più di 10.000 Euro/anno, valutiamo se è possibile metterla in piattaforma. Siamo abbastanza neutri sul fatto che, tre anni prima, quel brano possa essere stato creato da un “umano” oppure da un’Intelligenza Artificiale. Gli artisti, tuttavia, devono stare molto allerta, nella valutazione delle nuove tendenze per non lasciarsi sfuggire qualcosa.

D.: Che cosa ti piace ascoltare? Cosa c’è nella tua playlist?

M.S.: Sono un fan sfegatato dai Pooh. Mi piace moltissimo la musica italiana e, soprattutto quando lavoro, ascoltare colonne sonore. È un tipo di ascolto che mi carica. La musica ti cambia l’umore e ti puoi fare cambiare l’umore dalla musica.

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