Smote – Genog

Smote è lo scrigno di Daniel Foggin, multi-instrumentalist di Newcastle, giunto con Genog al quarto
album. Per capire il contenuto in questo piccolo forziere “fog on the Tyne”, accanto alla costruzione
analitico-ispirativa, occorre risalire ad un vecchio film del regista russo Aleksej Jurevič German, Hard To
Be A God (E’ Difficile Essere Un Dio, basato sull’omonimo romanzo del 1964 degli scrittori sovietici
Arkady e Boris Strugatsky). La trama del film prevede l’invio di alcuni scienziati sul pianeta Arkanar per
aiutare la civiltà locale, immersa nella fase medievale della loro evoluzione, a trovare il modo migliore
per progredire. Il compito è difficile: non possono intromettersi usando la violenza ed in nessun caso
uccidere.
Conforme all’ispirazione della pellicola, Foggin proietta il periodo tra la fine dell’età antica e l’inizio
dell’era moderna, sviscerando persistenti coacervi drone e musica minimale. Piogge acide rivestite di folk
strumentale, un ronzio rock seventies intrecciato da frammenti di liuto, flauto a tre buchi, arpa irlandese.
La sintesi della ripetizione come finger music, pressoché intuitiva, si connette ad una spinta conflittuale,
convertita in proiezione mentale relativa alla sensazione fobica.
Lo scenario ha grande potenza illusoria. Si mostra come allestimento incorporeo ma al contempo
impudico e vivido. Viene affrontata una prospettiva esistenziale sordida, un girone dantesco in cui sono
dannati tutti gli esseri umani per il semplice fatto di esistere.

Smote espone il dolore incalzante di un Medioevo deforme, un’angolatura mostruosa di fango, sangue,
escrementi. Lo sfacelo di un mondo turpe in cui la crudeltà si avvicina paradossalmente a rappresentare
quasi un atto di misericordia e dove pure la filosofia è una bestemmia. Cinque composizioni i cui titoli
derivano da antichi dialetti inglesi che si immergono ancor di più nel contesto angoscioso. L’arte grafica
rimanda a qualcosa di già visivamente vissuto grazie al brillante tratto del graphic designer John
O’Carroll, boss di Rocket Recordings. L’uomo verde, sul front dell’opera, si appresta a legare un covone
dentro un campo d’orzo. Siamo ad una affinità layout tra il senzatetto di Aqualung (Jethro Tull) ed il
vecchio che ha sulle spalle un fascio di legna in IV (Led Zeppelin). Forse un richiamo agli antichi echi di
Corte del menestrello Anderson? O invece il riferimento è all’anziano piegato dalla fatica, nella
consapevolezza che la presunta purezza di una vita bucolica si stia sfaldando? In queste allegorie traspare
l’Evo buio, l’epoca contrassegnata dalle ingiustizie ed espressa da movimenti aurali, esasperati e sostenuti,
come la ripetizione continua di una nota.
La title-track plana nel fosco sembiante, allargando le intuizioni elettro-acustiche. Il coro somiglia ad un
canto gregoriano monodico, come ad ammonire la mancanza di fede. La sorgente melodista-pastorale si
affaccia tramite Hlaf, schiacciata nella parte finale da una martoriata chitarra elettrica. Fenhop scorre le
percussioni con la pelle di capra del bodhran, scandisce l’inquietante rumore attraverso un tubolare
strumento a fiato. Lof va oltre, vero fulcro Anno Domini-metal; infernale e greve. Il suo avanzamento si
tramuta in Banhus, pandemonio martellante con oltre dieci minuti di uggiosa consapevolezza, voluta da
un Dio folle.
Genog compare mediante un componimento dissennato e immaginario che cerca di diventare Storia tanto
quanto la Storia.

(Rocket Recordings)

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