Ryo Okumoto – The Myth of the Mostrophus

Ryo Okumoto ha 63 anni e, nell’immaginario degli appassionati di musica, potrebbe apparire come un distinto signore giapponese, naturalizzato americano, dallo stile e dall’atteggiamento calmo, compassato, che suona la propria musica con un approccio misurato e sobrio… ebbene, nulla di tutto ciò.

Intanto siamo di fronte ad un musicista profondamente entusiasta, appassionato, che non fa assolutamente mistero di queste sue caratteristiche ed oltre a ciò parliamo di un vero cultore delle tastiere, spesso anche vintage, di un artista che, prima ancora di essere un virtuoso, è un ricercatore, quasi uno studioso di quei suoni che poi trasferisce nelle sue esecuzioni, in studio e dal vivo; e proprio dal vivo il suo approccio vivace, coinvolgente, elettrizzante, ne fa un vero e proprio folletto dei tasti bianchi e neri.

Lo si è visto durante i suoi ventisei anni negli Spock’s Beard, prog band americana nella quale è entrato nel 1994 ed in cui milita tuttora, lo si nota anche in questi anni, grazie ai numerosi video che pubblica con frequenza, esprimendo quindi un inatteso lato social nel quali traspare interamente il suo amore viscerale per le tastiere in mezzo alle quali si diverte, quasi fosse un ragazzino all’interno di un parco giochi.

Nella propria carriera Okumoto non è stato molto attivo come solista, perché l’impegno con la band ha fruttato tredici lavori, uno ogni due anni, oltre ai tour; nato ad Osaka, ha iniziato a suonare quando aveva tre anni e, dopo essersi trasferito a Tokio a sedici anni, ha collaborato con la band dei Creation e successivamente con il compositore di musica elettronica Kitaro, dopodichè ha realizzato come solista tre album, ovvero Solid Gold e Making Rock, nel 1980, e Syntethizer, l’anno successivo.

Trasferitosi negli Stati Uniti, dove ha studiato ancora per diversi anni, ha iniziato a collaborare con numerosi artisti di rilievo, tra cui Phil CollinsEric ClaptonAretha FranklinBarry WhiteEric BurdonPeabo Bryson e Roberta Flack (l’elenco, da qui in poi, è davvero impressionante…) sino all’ingresso negli Spock’s Beard e dal 1996 ha ripreso a pubblicare album solisti, ma sempre con parsimonia; dopo una ventina d’anni di pausa (l’ultimo lavoro in studio, Coming Through, era del 2002), ecco Live in OsakaProg From Home e Kamikaze To The Sun, usciti tutti nel 2020, a dimostrare l’urgenza di condividere la musica creata ed archiviata nel tempo.

Il suo lavoro più completo, maturo, forse quello che ne definisce più compiutamente lo spessore è però l’ultimo nato, The Myth of the Mostrophus, che vede la presenza di una schiera di collaboratori di livello, a dimostrazione del credito che Okumoto ha accumulato negli anni presso il pubblico, e presso i colleghi.

Vale la pena di scorrerlo questo elenco, per inquadrare il contesto in cui è nato l’album: oltre alle tastiere (ed occasionalmente le percussioni), di cui si è occupato in prima persona, ecco Steve HackettMike KeneallyMarc BonillaRandy McStine (anche alla voce), Alan Morse (suo collega nei Beards…), Lyle Workman e Michael Whiteman (autore dei testi e voce solista) alle chitarre, Dave Meros (sempre dei Beards) e Doug Wimbish (Living Colour) al basso, Nick D’Virgilio (anche lui dei Beards ed anche voce solista) e Jonathan Mover (MarillionGTRJoe SatrianiSaigon Kick) alla batteria, Michael Sadler e Ted Leonard, voci soliste, Jimmy KeeganKevin Krohn e Keiko Okumoto ai cori ed infine Andy Suzuki ai fiati, Toshihiro Nakanishi al violino e Raphael Weinroth-Browne al violoncello.

Un team di altissimo livello per sei brani che, lungi dall’essere una mera esibizione tecnica, sono la sublimazione dell’approccio musicale del tastierista le cui parole descrivono bene il risultato: “There’s nothing better than to have a song, your song, which is like your baby, taken in and adopted by a great family of musicians that help nurture it to adulthood. I’m very excited at how this album came together and I hope people will appreciate every note painstakingly written and expertly executed.

Se progressive deve essere che lo sia, con tutti i crismi ma senza l’ampollosità che spesso lo appesantisce: Mirror Mirror, che apre l’album (Spock’s Beard al completo, e si sente…), introduce un’odissea musicale che decolla subito grazie ad un’architettura che Okumoto ed i colleghi costruiscono con attenzione: suoni bilanciati, arrangiamenti ariosi, atmosfere ampie, luminose in cui le parti soliste non sono mai né eccessive né pesanti; difatti la successiva Turning Point, con un Jonathan Mover ispiratissimo e Wimbish che costruisce una splendida linea melodica, è un brano semplice, quasi pop, che scorre lineare e senza spigoli sonori sulle ali di una fluidità pari solo alla capacità dei musicisti di interagire con efficacia, senza mai sovrapporsi tra loro.

The Watchmaker (Time on his Side), primo singolo del nuovo album, è fortemente improntato ad un sound anni ’70, in certi passaggi ricorda i primi Genesis dell’epoca post-Gabriel, ma è strutturalmente semplice, con Mover e Meros a dettare il ritmo, una gran prestazione vocale di Whiteman, Krohn e Keiko Okumoto, Workman ed Okumoto a dividersi le parti soliste, mentre Maximum Velocity, che inizia con un delicato arpeggio di Marc Bonilla affiancato da un riconoscibilissimo Steve Hackett, cresce lentamente sino a divenire un hard-rock fluido e ben rifinito nei dettagli sonori.

Chrysalis, secondo singolo, è invece più morbido, violino e violoncello, oltre al basso ispirato di Wimbish, giocano un ruolo fondamentale nel valorizzarne l’atmosfera ed il mood, ed introduce la suite finale, The Myth of the Mostrophus, vero e proprio tour de force di prog classico in cui il talento dei musicisti permette livelli, anche emotivi, davvero notevoli, per una cavalcata di oltre venti minuti in cui la narrazione si sviluppa anche attraverso differenti ed integrati segmenti sonori nei quali Okumoto propone i timbri che lo hanno reso famoso e ne caratterizzano da anni uno stile riconoscibile.

Prog-rock al massimo della propria espressività, suggestivo ed ispirato quanto basta per solleticare anche il palato di chi, questo genere, lo frequenta meno, o lo guarda con sospetto: nessuna pesantezza sonora o esecutiva, ma una serie continua di cambi d’atmosfera che, movimentando l’insieme, ne agevolano davvero l’ascolto.

(InsideOut Records, 2022)

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