Robben Ford – Pure

(Andrea Romeo)

Sintetizzando questo lavoro in poche parole: un uomo, e la sua chitarra… Robben Ford torna a far risuonare la sua sei corde e decide anche di immortalarla sulla copertina di Pure, ventinovesimo album della sua lunga carriera solista iniziata con Schizophonic, nel lontano 1976, debutto nel quale decise di suonare anche il sassofono, realizzando allora un curioso mix di blues, latin e jazz.

Questa volta però, l’idea alla base di queste nove tracce è più univoca, in un certo senso più meditata, ma soprattutto scevra da qualsiasi tipo di mescolanza stilistica… ed il titolo dell’album è un primo indizio, in questo senso.

Puro blues, ruvido, dalla voce roca, tra volute di fumo, tintinnio di bicchieri e chiacchiere sottovoce e la copertina, una Fender Telecaster che porta fieramente addosso i segni del tempo, sverniciata e con qualche bozzo, è il secondo indizio.

Il terzo indizio si rivela con le prime note di Pure (Prelude), una sorta di porta di accesso che conduce direttamente a White Rock Beer… 8cents, brano scarno, essenziale, chitarra in primo piano a dettare la melodia, la batteria di Patrick Ford, fratello di Robben, che fa il suo con questo ritmo altalenante e continuo, il basso di Dave Row che viaggia dritto, senza fronzoli, senza deviazioni, ed i sax di Bill Evans e Jeff Coffin che affiancano a tratti la sei corde, ma senza mai allargarsi troppo.

Un brano all’insegna del più puro “less is more”, in cui la misura e la semplicità sono i punti di riferimento musicali più evidenti; e che Ford ed i suoi sodali non intendano affatto strafare lo dimostra la terza traccia, quella Balafon in cui cambiano i protagonisti, ovvero Keith Carlock (Toto, Wayne Krantz, Steely Dan, James Taylor, Donald Fagen, Walter Becker, Tal Wilkenfeld, John Mayer, Sting e Chris Botti…) alla batteria, Brian Allen al basso e Russel Ferrante, vecchio compagno di Ford nei neonati Yellowjackets, al piano Wurlitzer, che danno vita ad una ballad a tratti onirica, notturna, ricca di profondità e di fascino.

Con Milam Palmo, che vede allineati Casey Wasner alla batteria, Steve Mackey al basso e Wes Little alle percussioni, il ritmo cambia decisamente, scivolando verso una sorta di latin-blues caldo e solare, cui fa seguito un’ipnotica Go, con Nate Smith (Robin Eubanks, Chris Potter, Dave Holland, Paul Simon…) alla batteria ed Anton Nesbitt al basso, che strizza l’occhio all’urban blues ma anche alla black music, rimandando a certe colonne sonore seventies, stile blaxploitation, in cui al blues si uniscono soul music e funk ed in cui il basso è protagonista ritmico e melodico.

Con Blues for Lonnie Johnson il quintetto ritorna nelle più autentiche e vissute atmosfere da club in cui il blues si esprime nella sua classica progressione, quelle dodici battute che racchiudono non solo uno stile musicale, ma una cultura, un mondo in cui Ford si trova nel suo elemento naturale e nel quale, grazie alle note strappate alla chitarra, può mostrare, mettere a nudo e condividere completamente la propria anima.

Cambia tutto nella successiva A Dragon’s Tail, che vede alla batteria un altro illustre turnista, Toss Panos (Dweezil Zappa, Sting, Steven Stills, Paul Rodgers, Michael Landau, John Goodsall, Steve Vai, Mark Hart, Mel Torme, Andy Summers…) ed in cui Ford sperimenta, sempre su una base fondamentalmente blues, una serie di suoni differenti, che talvolta sembrano provenire da una sorta di abisso ricco di eco e di riverberi, e che sortiscono un effetto straniante.

Un gruppo di collaboratori ampio, come si può notare, ad accompagnare il chitarrista californiano e questo perché, pur nella totale unitarietà di fondo del lavoro, per ogni brano c’era bisogno di intenzioni, stili, approcci strumentali e protagonisti differenti, che potessero dare ad ogni singolo pezzo qualcosa di differente dal precedente.

E così Pure, il brano che dà il titolo all’intero album, allinea Jimmy Malis all’oud e Satam Ramgotra alla tabla, rivelando una interessante ed affascinante commistione tra il blues e certe atmosfere mediorientali, una vicinanza che risulta davvero spontanea, quasi naturale e che fa nettamente percepire quanto la musica, ed i suoi numerosi e differenti linguaggi, abbiano molte meno barriere di genere di quelle che spesso, e per motivi il più delle volte superflui, le vengono attribuite.

If You Want Me To chiude, con grazia e toni pacati, un lavoro che riconduce Robben Ford alle origini, in una sorta di ritorno a casa, dalla quale si era allontanato per quei viaggi musicali che lo hanno condotto a relazionarsi con il gotha del jazz e della fusion mondiale, nei cui ambiti è da tempo considerato tra gli esponenti di spicco.

Una carriera, la sua, più che cinquantennale, durante la quale ha incrociato nomi di livello assoluto, ai quali ha prestato la propria inconfondibile sei corde ma dai quali ha anche assorbito una notevole quantità di stili, influenze, sollecitazioni che lo hanno messo in condizione di sviluppare un bagaglio artistico, divenuto ormai amplissimo.

Pure è anche il primo album, interamente strumentale, registrato da Ford dopo Tiger Walk, datato 1997, ed è un lavoro in cui il chitarrista riesce ad esprimere, sempre con molta delicatezza e sensibilità, buona parte di quel vocabolario musicale che, formatosi tra jazz, rock e blues, gli ha consentito un eclettismo ed una estrema capacità di leggere le situazioni musicali, di comprenderne il senso e di adattarvi il proprio stile, senza snaturarlo ma anzi arricchendolo sempre, come detto, di nuovi capitoli.

Non un album innovativo, almeno nel senso stretto del termine, ma un lavoro che, malgrado un approccio globalmente tradizionale, si ritaglia spazi in cui osare qualche passo in avanti, gettando semi che, in futuro, potranno dare luogo a nuovi frutti.

(earMusic Records, 2021)

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