Quintorigo – Play Mingus Vol. 2

Correva il 2008 quando la band romagnola decise di approcciare un gigante del jazz, ma anche un personaggio complesso, dall’esistenza altalenante, ricca di momenti assolutamente memorabili intervallati da periodi problematici, quando non di vera e propria depressione, dovuti soprattutto ad un carattere difficile, complesso, che alternava lampi di estrema solarità ad altri di una cupezza più che rabbiosa.

Quintorigo, che decisero allora di confrontarsi con Charlie Mingus e di farlo in maniera filologicamente molto accurata e rispettosa, sia del personaggio che della sua musica, http://www.lisolachenoncera.it/rivista/recensioni/quintorigo-play-mingus/ a distanza di quattordici anni si ripresentano di fronte al contrabbassista, pianista e compositore di Nogales che, evidentemente, continua a trasmettere loro una fascinazione particolare, interpretando altri undici brani della sua discografia e proseguendo un percorso che ha avuto, sin dall’inizio, un obbiettivo molto chiaro e preciso, ovvero quello di tratteggiare non soltanto il musicista, il personaggio Mingus, ma soprattutto l’uomo, ed il mondo in cui si è mosso, attraverso le tensioni sociali, razziali e politiche di cui gli Stati Uniti sono stati, e peraltro sono tuttora, teatro.

La band è la medesima del primo episodio, ma cambiano i collaboratori perché, negli anni, i Quintorigo hanno lavorato con musicisti differenti per background ed espressività: ad Andrea Costa, violino, Gionata Costa, violoncello, Stefano Ricci, contrabbasso e Valentino Bianchi, sassofoni, ovvero la formazione storica, si sono uniti Alessio Velliscig, voce, Simone Cavina, batteria e Mauro Ottolini, trombone; ed è proprio la presenza di un trombonista a segnare un ulteriore punto di vicinanza tra la band e Mingus, che aveva iniziato i suoi studi musicali proprio con il trombone, e con il violoncello, prima di passare al contrabbasso di cui divenne, nel giro di pochi anni, un esponente di spicco, sino ad entrare nel 1947, a venticinque anni, nell’orchestra di Lionel Hampton, e venendo poco dopo in contatto con i principali beboppers neri, ovvero Bud PowellCharlie ParkerDizzy GillespieMiles DavisOscar Pettiford, fino alla collaborazione con Max Roach, datata 1952.

Play Mingus Vol.2 si caratterizza per una scelta di brani che va a toccare da vicino, ed in maniera significativa, la vita personale e sociale di Mingus: Devil Woman racconta del suo tormentatissimo rapporto con l’universo femminile, in cui la passione travolgente sfociava spesso nella violenza, Free Cell Block F.Tis Nazi U.S.A. riporta ad un particolare blocco di celle carcerarie, presenti nel sud degli States, durante gli anni ’70, Duke Ellington’s Sound of Love rimanda invece ad una delle sue grandi fascinazioni giovanili, quella per Ellington e per alla sua concezione musicale orchestrale, e non puramente solistica, che valse a Mingus il soprannome di Baron.

So Long Eric è invece dedicata ad un musicista con il quale ha condiviso uno dei suoi periodi musicalmente più fecondi, quei primi anni ’60 durante i quali toccò incredibili vette di sperimentazione: Eric Dolphy fece infatti parte di un sestetto formidabile che allineava, insieme al leader ed al polistrumentista losangelino, Dannie Richmond alla batteria, Jaki Byard al pianoforte, Clifford Jordan al sax tenore e Johnny Coles alla tromba; il brano, originariamente intitolato Don’t Stay Over There Too Long, Eric, era un esplicito invito, rivolto dal bassista a Dolphy, perché rientrasse nel gruppo che aveva abbandonato alla fine del tour europeo dell’aprile 1964, ma l’improvvisa morte di Dolphy, per un attacco di iperglicemia diabetica avuto in quel di Berlino, lo trasformò in una sorta di commiato finale.

Aggiungiamo ancora Sue’s Changes, dedicata da Mingus alla moglie Sue, brano che in origine durava oltre 17 minuti attraversando vari cambi di umore, da ballata ad una sorta di discesa nel maelstrom sonoro per tornare infine su parti più distese e swing, poi il pezzo che apre l’album,Haitian Fight Song, che rievoca la rivoluzione degli schiavi neri ad Haiti alla fine del ‘700, scritta in un periodo di forti tensioni sociali negli Stati Uniti, in cui il movimento per i diritti civili degli afroamericani incontrava la resistenza delle frange razziste, soprattutto negli stati del Sud, ed infine la conclusiva Self Portrait in Three Colors, malinconica ballad che tratteggia la complessa personalità del contrabbassista statunitense, così come si descrive lui stesso nell’incipit della sua autobiografia, Peggio di un Bastardo, uno e trino allo stesso tempo, una sorta di divinità benedetta dal genio, e maledetta dal carattere allo stesso tempo, ed il puzzle sonoro dei Quintorigo appare in tutta la propria accuratezza: l’uomo Mingus viene osservato e raccontato da differenti punti di vista, attraverso le proprie passioni personali, musicali e sociali. Nelle note contenute all’interno del booklet, una interessante definizione dell’album stesso, a firma Gino Castaldo: “Affrontare il repertorio di Mingus è come scalare una montagna partendo dalla cima, bisogna ascendere fino alla base, accettare la vastità della sovversione di un mondo visto dal punto di vista burbero e potente di un contrabbasso.

I Quintorigo, e Stefano Ricci ovviamente in particolare, non solo hanno accettato la sfida, ma l’hanno voluta reiterare, scendendo ancor di più nel profondo di un animo inquieto, straziato, controverso e contrastato, che anche dal punto di vista musicale non poteva affatto essere rappresentato in maniera, per così dire, letterale, ma andava approfondito, capito ed interpretato; l’ensemble è riuscito a cogliere la relazione tra la musica e le idee di Mingus, mediata dall’esperienza di vita, ed a proporla comunicando all’ascoltatore la fascinazione e l’emotività di un percorso che, irto di ostacoli e di momenti di contrasto, ne ha fatto i propri punti di interesse salienti.

L’obbiettivo era quello di riuscire a rendere questo percorso nel modo più sincero possibile, ed in questo senso la poliedricità musicale dei singoli musicisti, e l’attitudine alla contaminazione collaudata negli anni dalla band, hanno fatto la differenza, evitando una riproposizione pedissequa a vantaggio di una interpretazione del tutto personale, ancorchè filologicamente ineccepibile.

(Egea Music Records, 2022)

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