Opeth – In Cauda Venenum

(Andrea Romeo – 6 febbraio 2020)

Il nuovo album degli Opeth, In Cauda Venenum, è uscito solo da pochi giorni, ma ha già dato adito a discussioni infinite, ed era nell’ordine delle cose che ciò accadesse.
Da parte dei fans, diciamo così, della prima ora, verrà probabilmente considerato il quarto album della seconda fase della loro carriera, mentre da parte dei fans più recenti, verrà valutato più semplicemente come il tredicesimo lavoro di una carriera che ha, evidentemente, avuto una cesura netta, chiara ed inequivocabile.

Mikael Åkerfeldt ha forgiato la sua creatura secondo quelli che sarebbero stati, di lì in poi, gli stilemi del black metal: dal debutto di Orchid, e sino a Watershed, passando per il capolavoro del 2001 Blackwater Park, in nove album la band svedese ha dettato i canoni di uno dei generi, collaterali all’heavy metal, più suonati soprattutto nei paesi nordici, facendone un trademark mondiale.
Chiunque suonasse, o ascoltasse, black metal, doveva necessariamente fare i conti con l’oscurità, la malinconia, la cupezza sonora espressa dalla band, con il cantato growl di Åkerfeldt, con le chitarre ed il basso martellanti e plumbei: dei precursori, indubbiamente, o dei capiscuola che hanno stabilito degli standard.
Succede poi, ma non è la prima volta nella variegata storia del rock, che ad un certo punto, a seconda dei punti di vista, si rompe, o scatta qualcosa: David Bowie, ad esempio, “uccise” on stage il suo alter-ego Ziggy Stardust; Peter Gabriel abbandonò i Genesis, e lo fece proprio nel momento in cui, la band, iniziava a raccogliere quanto ampiamente seminato negli anni precedenti.
Nel momento in cui questi artisti hanno ritenuto di aver detto ragionevolmente tutto, in un determinato ambito musicale, hanno svoltato: seccamente, in modo volendo anche traumatico, ma senza dubbi o ripensamenti di sorta.

Mikael Åkerfeldt, Fredrik Åkesson, Per Wiberg, Martin Mendez e Martin Axenrot hanno pubblicato Heritage nel 2011 e, già dalle prime note, si poteva comprendere come, il capitolo black metal, per il quintetto svedese fosse una questione chiusa, riguardo alla quale non si sentivano di avere più nulla da dire.
Un album meno spigoloso, meno oscuro, in cui il cantato “clean” si era totalmente sostituito al canonico “growl”.
L’incontro, avvenuto di lì a poco, con Steven Wilson, ha rafforzato ulteriormente questa transizione musicale, perché poco a poco, ma in maniera significativa, elementi progressive si sono insinuati nelle composizioni degli Opeth: Pale Communion e Sorceress, usciti successivamente, hanno consolidato questo nuovo percorso da loro intrapreso, e di cui In Cauda Venenum non è solamente, o comunque non tanto, un mero punto di transito ulteriore, ma appare più propriamente come la nuova base da cui proseguire, il nuovo standard, o canone, comunque lo si voglia chiamare.

Dieci tracce, in cui tornano, almeno in parte, le ambientazioni oscure degli inizi, che vengono però declinate in maniera assai differente: le strutture dei brani sono molto più complesse, spesso intricate, ed in questo senso le chitarre, ed il basso, eseguono parti certamente assai meno aggressive, mentre la presenza delle tastiere risalta maggiormente, rispetto al passato, creando atmosfere più ampie, ariose, meno claustrofobiche, ed Åkerfeldt esplora, in maniera più estesa, le sue già notevoli capacità vocali.

Inutile dire che la produzione è, qualitativamente, a livelli di eccellenza assoluta: i suoni sono definiti, le dinamiche esaltano le qualità strumentali dei musicisti, l’amalgama è coesa, ma mai confusa, anche perché sia nel lavoro di arrangiamento che in quello di produzione, ci sono state un’attenzione ed una cura davvero certosine nell’esaltare i timbri e le caratteristiche sonore dei singoli musicisti.
La differenza, anche solo rispetto all’album precedente, è palesemente udibile: il basso di Mendez ha un suono chiaro, mai confuso e linee davvero ispirate, le chitarre di Åkerfeldt e Åkesson hanno ampliato il loro range sonoro, e quindi non solo più ritmica ed assoli, ma trame più intricate ed elaborate, Joakim Svalberg ha ormai preso pieno possesso di Hammond e Mellotron, divenuti elementi integranti del suono Opeth del secondo decennio del secolo mentre Martin Axenrot, che già in precedenza aveva dimostrato di non essere una semplice “macchina da ritmo”, sta sviluppando un approccio percussivo decisamente più articolato.

Ormai padroni del proprio suono, i cinque svedesi guidati dal loro baffuto compositore, cantante e chitarrista si stanno inoltrando in un territorio che, tutto sommato, offre ampi spazi di esplorazione ancora incogniti…

(Nuclear Blast, 2019)

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