John Cowan Hartford

John Harford playing at MerleFest in North Carolina April 1993.

(Pierangelo Valenti – 30 maggio 2016)

In Italia la prima e probabilmente unica rivista del settore che si occupò di John Cowan Hartford (1937-2001) in modo accattivante ed esauriente proponendolo ad un esercito di novelli appassionati che in quei tempi, a differenza degli attuali, sprizzava curiosità da tutti i pori, fu Il Mucchio Selvaggio. Le altre navigavano, chi più chi meno, di piccolo cabotaggio o in alto mare. Ad onor del vero c’era stato in precedenza un timido tentativo dalle pagine musicali del mensile Suono, quel seminale “Music Box”, inserto che fece da fucina per la nuova testata e che rimase però una voce isolata e senza seguito. Il Mucchio, nato alla fine degli anni Settanta, si trovò a recensire i suoi dischi del periodo Flying Fish, le cui copertine spesso lo ritraggono nelle cabine di pilotaggio, al posto del nocchiero, o sui ponti delle “cattedrali sull’acqua” del Mississippi e che, come le ciliegie, si trascinarono dietro a poco a poco i primi lavori pubblicati dalla RCA americana (un folk pop semiacustico ad alto livello, del tutto godibile e per nulla datato) e soprattutto gli album usciti per la Warner Brothers, opere contenenti una tale messe di conoscenze sulle tradizioni musicali nordamericane, un tale buon gusto nello scegliere tra melodie popolari e composizioni originali ed una ricerca di soluzioni mai tentate prima con questo materiale da lasciare ancora oggi a bocca aperta l’ascoltatore. Del grande fiume, percepito e considerato come “padre”, Hartford mostrò di conoscere i segreti più reconditi tanto da inventarsi una vera e propria cultura fluviale già da adolescente e divenire quasi parte intima di un tutto prendendo addirittura la licenza nautica e manovrando il timone del battello a vapore “Julia Belle Swain” per lunghi periodi durante la stagione estiva. Per chiudere il cerchio il vertice del tributo all’artista su carta stampata venne raggiunto dal numero 10 (gennaio/febbraio 1985) della rivista bimestrale Hi, Folks! che gli dedicò, unica nel nostro Paese, la copertina ed un lungo articolo del musicista romano Stefano Tavernese, suo grande estimatore da tempo immemorabile. Sono ormai trascorsi tre lustri dalla sua scomparsa ma forse nessuno ha ancora avuto la piena consapevolezza di chi e di che cosa tutti noi ci siamo persi quel 4 giugno 2001 a Centennial Medical Center di Nashville alla fine di una lunga battaglia con gli effetti deleteri di un linfoma non Hodgkin. Newyorkese di nascita, missouriano d’adozione ma navigatore apolide per scelta, autore sopraffino e prolifico (è sua la arcifamosa “Gentle On My Mind”), una fonte inesauribile di esperimenti e ispirazioni, un polistrumentista padrone assoluto dei suoi mezzi tecnici e non solo. Soprattutto un entertainer nel senso più autenticamente nordamericano del termine: musicista nato, storyteller, calato con una macchina del tempo all’epoca d’oro dei minstrel e medecine show, sopravvissuto e ritornato, forse l’ultimo erede di Uncle Dave Macon se non con uno spirito rock (e qui un punto interrogativo ci starebbe a pennello) di sicuro con un’anima da simpatico e sincero freakkettone con la sua diventata inseparabile bombetta nera in testa. Ritornando ai dischi per la Warner, una traccia qualsiasi di “Aereo-Plain” (prodotto da David Bromberg che della stessa session in quel di Nashville ritenne “Lonesome Dave’s Lovesick Blues #3” e “Arkansas Traveler” per il suo album d’esordio ed al quale l’artista raccomandò di registrare tutto incondizionatamente) o “Morning Bugle” (se possibile, più sfacciatamente trasgressivo e giocato in trio con Norman Blake ed il contrabbassista jazz Dave Holland che con i due non aveva mai suonato prima), entrambi basati per il 99% su composizioni originali, contiene di tutto: folk, old time, blues, bluegrass, newgrass, rock, swing, jazz… Anzi qualcuno ha detto, forse giustamente, che se non ci fosse stato “Aereo-Plain” non avremmo mai assistito alla nascita del newgrass e suoi satelliti. Qui è tra l’altro presente una parte della crema di musicisti (a lui da sempre legati a doppio filo) che ha contribuito ad esplorare in avanscoperta, in tempi insospettabili, ciascuno a suo modo, in maniera del tutto indipendente e con risultati alterni, le nuove tendenze della musica acustica e semiacustica americana: Norman Blake, Vassar Clements, Tut Taylor, Randy Scruggs. I due albums, pubblicati originariamente in rapida successione nel 1971-1972, sono stati riediti in un doppio cd per i tipi della Real Gone Music sotto il titolo di “The Complete Warner Bros. Recordings” con otto titoli saltati fuori a sorpresa da qualche cassetto d’archivio, ma come abbiamo accennato catturati a registratore sempre in funzione. Per la cronaca ricordiamo che già nel 2002 la Rounder realizzò “Steam Powered Aereo-Takes”, un cd curato e compilato selezionando più di ottanta bobine di nastro magnetico dal banjoista Bob Carlin, altro suo ammiratore da sempre, contenente parecchi outtake e demo dalla sedute per il primo lp dove una volta tanto (e questo vale per le riedizioni “rinforzate” in generale) gli inediti sono musicalmente all’altezza del materiale scelto in origine per la pubblicazione. Pur essendo musica “vecchia” di quarant’anni, e da molto tempo trascurata in modo imperdonabile anche dal sottoscritto, rimane tuttavia viva, palpitante, scalpitante ed incontenibile più che mai tanto da sembrare prodotta ieri l’altro. Prendiamo per esempio “Up on the Hill Where They Do the Boogie”, brano appositamente scelto da “Aereo-Plain”, capace di illustrare alla perfezione tutte le varie sfaccettature dell’artista più di mille parole. Si va ad incominciare con un tenue accompagnamento bluegrass di chitarra e mandolino che sfocia in una miniatura cajun dall’andamento quasi rap, per poi dipanarsi in una fantastica progressione ascendente di accordi jazz sottolineati da una forma di skat a duetto da antologia. E’ in questi castelli di carte fragili ed impensabili, ma una volta consolidati indistruttibili, che tocchiamo con mano la genialità del personaggio assistendo ad un anticipo della sua immortalità. Una nota a margine. La discografia di John Hartford, comprese le infinite collaborazioni (per citarne una tra le più significative, la partecipazione a “Sweetheart of the Rodeo” dei Byrds), è per nostra fortuna alquanto consistente e tuttora reperibile praticamente in toto: a differenza di molti altri artisti, e ciò conferisce al musicista un ulteriore merito, nell’intera sua lunga carriera non esiste album che possa passare inosservato.

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