Ci sono fiori e fiori, io Coltivo Una Rosa Bianca

(Stefano Starace)

Sono passati alcuni mesi, le reazioni di pancia dovrebbero essersi ridotte al minimo.

Primi di marzo, “venti-ventuno” si ripete in riviera ligure; sorge una piccola riflessione sull’acqua: serve alla terra perché poi ci dia i suoi frutti. Ovviamente i risultati non sono immediati, è un processo che vuole i suoi tempi: germinazione, fioritura, maturazione dei frutti. E poi, l’infinito utilizzo di questi ultimi come materia prima, come elemento da declinare, da combinare. L’acqua, l’acqua ha un rapporto con la terra importante, quest’ultima deve essere irrigata e l’annaffiatura ha una sua logica; la pioggia, per esempio, annaffia la terra da sempre, in genere sa cosa fare e lo fa bene. Ogni tanto, purtroppo sempre più spesso ultimamente, fa quello che non dovrebbe: il nubifragio, il temporale violento e breve, fa danni e non serve neanche alla terra perché l’acqua scorre via, non viene assorbita lentamente. Certo, se il prezioso liquido viene incanalato a dovere, può andare a riempire un pozzo, una cisterna… Mettiamola così, il festival di Sanremo è utile alla canzone e alla musica nello stesso modo dell’acqua di un temporale alla terra. Potrà riempire i pozzi (le tasche?) di qualcuno e/o far lavorare tanti, potrà far salire il livello delle cisterne o dei bacini (l’auditel, ma quest’anno nemmeno quello, se si considera il coprifuoco da covid19) per giustificare una macchina da guerra promozionale senza uguali… Insomma a qualcosa può servire ma non può servire direttamente alla musica (terra) e tantomeno alla cultura musicale (i frutti della terra) del nostro Paese (Pagnoncelli, presidente Ipsos, e Pagliaro, Fermiamo il declino dell’informazione, dove siete?).

Non è l’abbondante scoppio di mortaretti, lo sfavillio, il tripudio… a fare commemorazione, faranno altro ma non celebrazione. L’abito non fa il monaco come la spettacolarizzazione non fa necessariamente spettacolo. Lo spettacolo si coltiva e a maggior ragione se all’evento si vuol dare una connotazione di arte (non si dica che sono fuori strada perché da sempre chi si occupa del festivalone fa riferimento alla tradizione dell’arte canora italiana) né che al Paese serve svago e leggerezza perché, tranne poche eccezioni, il palinsesto televisivo, pubblico e privato, fa solo quello: “svago e leggerezza perché ne abbiamo bisogno”; tutti psicologi, tutti sociologi, vabbè.

Coltivo una rosa bianca è una lettura per tutti, “leggera”, come certa musica ma con logica, con un processo pertinente, come l’acqua che deve depositarsi nella terra, razionalmente. Il volume analizza una serie di canzoni di Luigi Tenco, Fabrizio De André, Enzo Jannacci, Sergio Endrigo, Edoardo Bennato e Caparezza. Le canzoni sono quelle che mettono in primo piano, o come sfondo, l’antimilitarismo e la non-violenza. L’autore, Enrico De Angelis, è storico della canzone e colonna fondamentale del Club Tenco fin dalla nascita, 1972, e direttore artistico per vent’anni; nell’ambiente è considerata la massima espressione del giornalismo musicale. E non a caso, è la maestria e la sensibilità del giornalista-ricercatore passionale che fa un po’ quello che fece Faber, forse meglio di tutti, quando innalzò la musica leggera a forma d’arte al pari di quella cinematografica, drammaturgica, pittorica, ecc. L’autore analizza le canzoni raccontandone genesi, aneddoti, episodi… le contestualizza. Sì, le storie, perché, le canzoni di certi autori nascono per un’esigenza intima, per un bisogno emotivo… e queste motivazioni, legate ovviamente al senso estetico, possono elevarla a opera d’arte. La stessa canzone può avere molteplici valenze: può essere stimolo, solidarietà, denuncia, testimonianza e altro ancora; ho visto più volte docenti, di varie discipline, fare lezioni con i propri studenti citando, anzi aiutandosi, con delle canzoni. Su queste argomentazioni rischiamo però di perderci, certamente, ma urge sottolineare una differenza tra acqua e acqua, tra quella che scorre forte e scappa via e quella che viene assorbita, che si deposita e dà la vita. Nella canzone succede la stessa cosa, c’è quella che dura un’estate, per esempio, e quella che dura una vita e che viene ripresa, citata, utilizzata. Quest’ultima l’abbiamo chiamata “canzone d’autore”. Ecco, chi ha concepito la suddetta locuzione è proprio l’autore del nostro volume verso la fine degli anni sessanta. Mi spiace che in questo anno terribile per il settore artistico, specificamente alla canzone e alla musica contemporanea le attenzioni siano state minime. C’è, evidentemente, bisogno di una spinta rigeneratrice che possa ricollocare la canzone alla stessa stregua delle altre forme d’arte. E il forte temporale non può rimpiazzare tale mancanza.

Coltivo una rosa bianca cita una poesia di José Martí, poeta-scrittore e rivoluzionario cubano, 1853-1895. Più recentemente, la Rosa Bianca è anche il nome che si dà un gruppo non violento di studenti tedeschi che provano ad opporsi al regime nazista. Coltivo una rosa bianca, non si poteva scegliere un titolo più bello. La musica si coltiva con passione e motivazione vera, con i mezzi e i tempi giusti, la canzone deve avere dei contenuti, deve ispirare chi la fa e emozionare chi la riceve. Tutti i motivetti, con i relativi ritocchi, possono essere “imparati” e canticchiati (condizioni necessarie per cui, ahimè, si classificano le canzoni). Possono essere le scintille a provocare grandi fuochi, accade spesso, e una bella e sana scintilla può provocarla proprio questa pubblicazione grazie alla sapiente scrittura del suo autore. La propongo questa lettura, è edito da Volo Libero, con introduzione di Mao Valpiana, presidente del movimento non-violento, la prefazione di Luigi Ciotti, presidente dell’associazione Libera e fondatore del Gruppo Abele, e ci sono le illustrazioni di Massimo Cavezzoli e Milo Manara. È un bel racconto di storie di canzoni e di autori.

PS nel frattempo c’è stato il concertone del 1° maggio, festa dei lavoratori, dei diritti dei lavoratori, e allora solidarietà, comprensione, sostegni… ma, senza nulla da dire sulla qualità, perché circa il 40%, cioè quasi la metà, degli artisti esibiti sono gli stessi di “marzo venti-ventuno”?

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