Cactus – The Birth of Cactus, 1970

Nel 1969 si era infranto il sogno dei Vanilla Fudge per cui il bassista Tim Bogert ed il batterista Carmine Appice ipotizzarono un piano B contattando prima Jeff Beck che, messo fuori gioco per oltre un anno da un incidente automobilistico, incroceranno pochi anni dopo nel progetto Beck, Bogert & Appice, power trio hard rock che ottenne un successo inversamente proporzionale alle, elevatissime, aspettative, poi sondando Rod Stewart, che però aveva già deciso di unirsi ai Faces.

Una delle più celebri sezioni ritmiche decise di guardare altrove e non optò certo per seconde scelte: James “Jim” William McCarty, chitarrista da Detroit, Michigan, proveniva da Mitch Ryder and The Detroit Wheels e dai Buddy Miles Express mentre Russell Edward DavidsonRusty Day, aveva collaborato con Ted Nugent negli Amboy Dukes, dopo aver fondato i Rusty Day & The Midnighters: non due pivelli, ma musicisti solidi che diedero vita alla prima storica formazione dei Cactus.

Firmarono per la ATCO Records e pubblicarono Cactus, 1970, One Way… or Another e Restrictions, 1971, che videro protagonista la prima incarnazione della band: il 16 Maggio del 1970 registrarono un album live presso il Temple Stadium di Philadelphia, che comprende brani dai primi tre lavori, alcuni dei quali presentati in anteprima e non ancora usciti nelle versioni in studio.

The Birth of Cactus – 1970, riemerso di recente dagli archivi, inquadra una delle prime uscite della band insieme a The Jimi Hendrix ExperienceGrateful Dead e Steve Miller Band e mostra la potenza incendiaria che il quartetto era in grado di produrre: cinque brani ed un medley di blues-rock sanguigno e roccioso, marchio di fabbrica che li fece definire “The American Led Zeppelin”, tanta era la considerazione in cui erano tenuti, ed il credito loro attribuito.

Si parte a razzo con una grintosissima One Way… or Another, title track strumentale del secondo album uscito tre mesi prima, ed in cui McCarthy mostra in modo evidente le qualità di chitarrista, mentre Bogert ed Appice costruiscono una base ritmica torrenziale, a tratti quasi violenta per veemenza ed energia: quattro minuti ad alto tasso adrenalinico cui segue una altrettanto impetuosa Sweet Sixteen, che sarebbe apparsa sul terzo album: Day mostra subito di essere vocalist impeccabile, ruvido, intenso ed espressivo, in totale sintonia con il mood della band, Bogert si scatena con i suoi fill, il medesimo approccio che lo aveva reso famoso con i Vanilla Fudge, McCarthy è, ancora una volta, energia pura, alternando passaggi ritmici a svisate soliste con una aggressività che trascina la band in scorribande sonore che lasciano senza fiato, sostenuto da un Appice nel pieno della forma, capace di frantumare il più semplice dei quattro quarti in cascate di fills differenti, sempre ricchi di dinamica e vivacità.

Dall’album d’esordio arriva No Need to Worry, bluesaccio ruvido, sporco, stradaiolo, che avanza lento ed indolente nel solco della tradizione: batteria e basso che scandiscono il tempo metronomicamente, una chitarra che sussurra, grida, urla, appare e scompare, alternandosi ad un cantato totalmente coinvolto e coinvolgente, e ad un’armonica che emerge per piazzare le proprie stoccate: un brano tradizionale che i Cactus propongono con una personalità, una grinta, una profondità di suono uniche comunicando, anche dal punto di vista strumentale ed esecutivo, uno stile indelebile.

Il medley Let Me Swim / Big Mama Boogie / Oleo unisce due brani del primo album ad una parte centrale tratta dal secondo, quattordici minuti in cui la band da fondo alla propria letteratura musicale mostrando quali e quante siano le proprie doti espressive.

La partenza è un fulmineo ed arrembante rock and roll in cui chitarra, basso e batteria mostrano personalità debordanti mentre Day sfoga un’energia che esplode dopo essere stata compressa: un improvviso break ed ecco un boogie classico che inizia sottotraccia, chitarra ed armonica a dominare la scena insieme a Day finchè Appice e Bogert entrano con irruenza, portando una ventata di ritmo, impetuosa e travolgente.

Una band che, dal vivo, se la giocava serenamente alla pari con i grandi gruppi dell’epoca, mostrando un carattere ed una determinazione, oltre che una energia, inarrestabili: in questo saliscendi sonoro fatto di accelerazioni improvvise ed altrettanto improvvise frenate, dietro ogni dosso una sorpresa ed il finale, una tiratissima Oleo in cui ogni musicista, in particolare Bogert, si ritaglia uno spazio solista, rappresenta di fatto l’assoluta sublimazione ed esaltazione live del quartetto.

Dall’album d’esordio arrivano anche Feel so Good e la conclusiva Parchman Farm, standard blues proposto nella versione di Mose Allison.

Con la prima, la band spinge sull’acceleratore grazie ad un rock and roll che sfiora l’hard rock: la registrazione, decisamente sporca, non rende forse giustizia alle capacità tecniche ed esecutive del gruppo ma, fattore più importante, trasmette l’energia prodotta sul palco: è il momento di Carmine Appice che mostra da chi, batteristi come John Bonham, abbiano tratto ispirazione per il proprio drumming; si chiude con Parchman Farm, boogie scatenato, sfrenato, incontrollato, degno finale per uno show che, in neppure un’ora, ha letteralmente fatto fuoco e fiamme.

Nel quarto album, ‘Ot ‘N’ Sweaty, uscito nel 1972, sostituiti da Werner Fritzschings, chitarra, Peter French, voce e Duane Hitchings, tastiere, organo, piano elettrico ed acustico, non ci saranno McCarthy, uscito dal gruppo per divergenze con i colleghi e Day, estromesso poco dopo ed ucciso nel 1982, insieme al figlio ed al vicino, manager, ed occasionale spacciatore Garth McRae durante un’aggressione subita in casa ed ancora oggi insoluta; passeranno trentaquattro anni prima di rivedere i Cactus in studio per Cactus V in cui, a Bogert (mancato nel 2021), Appice ed al rientrante McCarthy, si uniranno Jimmy Kunes, voce e Randy Pratt, harmonica; il solo Appice, nella band ancora oggi attiva, rappresenta l’unico legame tra passato e presente.

(Cleopatra Records, 2022)

Print Friendly, PDF & Email