Blue Murder – Blue Murder (1989)

(Andrea Romeo)

Quando il chitarrista John Sykes entrò nei Whitesnake, durante la lavorazione dell’album Slide It In nella sua versione americana, probabilmente non venne percepito immediatamente il valore del musicista di Reading, e quanto avesse modificato radicalmente l’approccio musicale della band; tutto ciò risulterà invece del tutto evidente nell’album successivo, Whitesnake/1987, nel quale Sykes rivelò compiutamente al mondo tutta la propria maestria, che andava ben oltre le sue pur eccellenti precedenti prove, ovvero i tre album registrati con i Tygers Of Pan Tang, Spellbound, Crazy Nights e The Cage e quello realizzato nel 1983 con i Thin Lizzy, Thunder and Lightning.

L’esperienza alla corte di David Coverdale durò proprio fino al 1987, anno in cui venne estromesso dalla band di cui il biondo e capriccioso cantante era decisamente il padre e padrone, il tutto dopo la faticosa realizzazione di un album che, in ogni caso, ha venduto ben oltre dieci milioni di copie in tutto il mondo.

Arricchito comunque da quell’esperienza, l’anno successivo il chitarrista contattò il bassista Tony Franklin, in uscita dai Firm, ed il batterista Cozy Powell, per dare forma ad una nuova band, i Blue Murder: Powell alla fine non accettò, e venne immediatamente sostituito da Carmine Appice, mentre il cantante designato, Tony Martin, venne subito rimpiazzato, prima da Ray Gillen e poi da Mark Free, che abbandonò la band per dedicarsi ai Signal; Sykes allora, spinto da John Kolodner, manager della A&M, decise di occuparsi personalmente anche delle tracce vocali.

L’album, registrato presso i Little Mountain Sound Studios di Vancouver, British Columbia e prodotto da un giovanissimo Bob Rock, prossimo a diventare uno dei più importanti produttori della scena, uscì il 25 Aprile del 1989 e contiene nove tracce che sono, di fatto, una vera e propria summa di quel particolare crossover ottantiano in cui trovano posto hard rock, heavy metal, pop ed hair metal: chitarre affilate, capaci di robuste cavalcate ma anche di arpeggi puliti e “piacioni”, batteria granitica, e con qualche minimo accenno di elettronica, basso solido ma in grado di disegnare interessanti passaggi melodici, le tastiere “sotterranee” di Nik Green a dare quel tocco sinfonico al tutto ed infine la voce di Sykes, inaspettata quanto sorprendente.

Nonostante l’album fosse eccellente, soprattutto dal punto di vista dell’esecuzione, fosse uscito nel periodo giusto e fosse del tutto in linea con le migliori produzioni rock di quel periodo, vendette bene ma non ebbe il riscontro che la band si attendeva, anche perché, neppure troppo sotto traccia, si ipotizzava, anzi si auspicava, una reunion tra il chitarrista e Coverdale, considerati decisamente una combo vincente.

Eppure, come detto, i brani c’erano, eccome, a partire da Riot, brano totalmente Whitesnake-style grazie a chitarre letteralmente tracimanti, un tandem ritmico assolutamente devastante (Appice è un martello, Franklin adotta timbri tanto inusuali quanto notevoli per pulizia e dinamica) ed una prova vocale davvero all’altezza, sostenuta da quei cori che, dell’hair metal, sono stati uno dei marchi di fabbrica.

Maggiormente hard rock, e con interessanti venature dark, la successiva Sex Child, in cui anche le tastiere ed i cori giocano un ruolo assai più rilevante; il break centrale, però, rimanda senza tema di smentita a quello di Still of the Night, giusto per capire quanto sia stata rilevante l’influenza di Sykes all’interno di 1987.

Il vero e proprio tour de force di tutto l’album arriva però con il terzo brano, Valley of the Kings: epica, sinfonica, carica di sovraincisioni, chitarre ruvide, una ritmica quasi marziale, tanto quadrata quanto efficace nel dettare la linea, ed una performance vocale davvero strepitosa, degna dei migliori cantanti dell’epoca.

Si cambia decisamente registro con Jelly Roll, una ballad acustica movimentata e brillante, dalla ritmica basica, giocata molto sui passaggi vocali e su un andamento che si potrebbe definire “romantico”, ma ci pensa immediatamente l’esplosiva batteria di Appice a risvegliare l’audience, grazie ad un ingresso di rara potenza che introduce la title track, un ruvido mid-tempo hard rock appena addolcito da accenni di tastiere, con una chitarra sempre sugli scudi ed il basso di Franklin a piazzare poche note ma perfette per accentuare i passaggi chiave.

Si torna ad atmosfere più quiete con la successiva Out of Love, classicissimo ballatone anni ’80, chitarre liquide, arpeggi delicati, cori e tastiere che piano piano crescono di intensità, una sorta di “tòpos” che include, va da sé, il più classico dei soli, con note strappate e dilatate, cariche di riverbero e di delay.

Billy è invece un brano inizialmente davvero curioso ed inusuale, almeno in questo contesto, grazie a basso e batteria che si inventano una ritmica quasi “etnica”, fino al momento in cui la band scioglie gli ormeggi e si lancia in una cavalcata caratterizzata da una serie di riff granitici; la successiva Ptolemy ripropone il medesimo approccio ma si caratterizza immediatamente per una melodia orientaleggiante, scandita da un ritmo impietoso e da inserti chitarristici lancinanti e ficcanti, insomma un mix tra hard rock, nel ritmo, ed heavy metal, nelle timbriche, ed il solito Sykes a mostrare di cosa sia capace con la sua sei corde.

Si chiude con Black-Hearted Woman, firmata a sei mani dal terzetto, uno speed-metal anch’esso Whitesnake-oriented (l’intro rimanda inevitabilmente a Bad Boys…) che oltre a rappresentare una degna chiusura per l’album si candida anche per rappresentare un ottimo brano di commiato in situazioni live.

Che cosa sia successo, perché il progetto Blue Murder non sia riuscito a decollare, ma soprattutto perché sia scivolato lentamente nel dimenticatoio, stante il fatto che tutte le tessere, dai musicisti alle tempistiche, fossero state posizionate nel posto giusto ed al momento giusto, rimane uno di quei misteri di cui il rock ama circondarsi; Sykes era un chitarrista di livello assoluto, un ottimo compositore e si è rivelato anche ottimo cantante, i suoi soci lo hanno assecondato al meglio, ma tutto ciò non è bastato.

Troppa convinzione, forse, nel poter “volare da solo”, cui ha fatto seguito un secondo album, Nothin’ But Trouble, anch’esso di ottimo livello ma uscito nel 1993, e cioè tragicamente fuori tempo massimo, quindi una sorta di chiusura in sé stesso, la convinzione di essere, come dichiarato in un’intervista diversi anni dopo, un “underdog”, qualcosa che sta a metà strada tra il perdente e lo sfavorito, un termine che racchiude una malcelata e mai sopita rabbia verso un ambiente nel quale Sykes era certamente una stella risultata però incapace di brillare di luce propria.

Gli eventi non lo hanno certamente aiutato, il suo carattere spigoloso neppure, ma Blue Murder certifica, al di là di qualsiasi dubbio, che la sostanza e lo spessore c’erano: forse è mancata proprio la capacità di plasmarli e di valorizzarli.

(Geffen Records, 1989)

Print Friendly, PDF & Email