Accept – Staying a Life

(Andrea Romeo)

Solingen, Nordreno-Vestfalia, località nota per la produzione di coltelli, spade e lance, come recitano i manuali di geografia; nel 1968 vi accadde però qualcosa di differente, che avrebbe lasciato un segno importante nella letteratura rock del 20° secolo.

Il sedicenne Udo Dirkschneider, così come tanti suoi coetanei, decise di fondare un gruppo musicale e lo fece, insieme al chitarrista Michael Wagener ed al batterista Birke Hoe: nacquero i Band X subito ribattezzati Accept, band grazie alla quale il rock teutonico lascerà un’impronta all’ambito della nwobhm; nuova formazione quindi, con Gerhard Wahl e Hansi Heitzer alle chitarre, Dieter Rubach al basso e Frank Friedrich alla batteria: nel 1976, finalmente, una lineup stabile, grazie al chitarrista Wolf Hoffmann subentrato ad Heitzer ed al nuovo bassista Peter Baltes.

La band pubblica una serie di album con cadenza quasi annuale: si va da Accept (1979), il debutto, cui segue l’ingresso di Stefan Kaufmann, alla batteria e di Jörg Fischer alla chitarra, al posto di Wahl, ad I’m a Rebel (1980), Breaker (1981), Restless and Wild (1982), primo grande successo entrato nelle charts di Inghilterra, Svezia ed Olanda, nella cui tracklist troviamo, oltre alla title track, Fast as a Shark, tra i brani iconici della band, ed ancora Balls to the Wall (1983), in classifica negli States (dove fu certificato disco d’oro così come in Canada) ed in Germania, per chiudere il periodo con Metal Heart (1985), primo album della band masterizzato digitalmente.

Una decina di anni intensi, sei album e relativi tour, un periodo che meritava di essere celebrato con un disco dal vivo: Staying a Life, doppio album registrato ad Osaka durante il tour di Metal Heart, mette in fila ben diciannove brani (ridotti a quindici nell’edizione americana) ed è una sorta di “best of” dal vivo che copre il primo decennio del combo tedesco, sancendone l’ingresso tra i grandi del metal mondiale.

Gli Accept si imporranno in Europa e negli States, assumendo un ruolo chiave nella nascita dello speed e del trash metal: sono decine le band che, negli anni successivi, li citeranno come fonte di ispirazione, e tra di esse troviamo Metallica, Megadeth, Slayer, Pantera, Testament, Anthrax, Guns N’ Roses, Mötley Crüe, Alice in Chains, Soundgarden, Overkill, Exodus, Annihilator, cui si vanno ad aggiungere i conterranei Helloween, Blind Guardian, Doro, Sodom, Rage e Grave Digger.

L’album, registrato nel 1985 con la formazione storica ma pubblicato solo nel 1990, poco prima dell’inatteso scioglimento della band, è di altissimo livello, i brani sono eseguiti fedelmente, addirittura perfezionati rispetto alle versioni in studio, ed offrono un quadro preciso della potenza che i cinque erano capaci di sprigionare sul palco.

Stefan Kaufmann e Peter Baltes forniscono una base ritmica assolutamente tellurica, senza lesinare finezze e passaggi di qualità, il duo Hoffmann/Fisher alterna sfuriate pesantissime a notevoli aperture melodiche, sciorinando assoli equamente divisi e tecnicamente inappuntabili; al vertice della piramide sonora la voce inconfondibile, urticante, in equilibrio tra lo screaming più spinto ed una ruvidezza degna della miglior carta vetrata, di Udo Dirkschneider, personaggio carismatico, vera icona del metal dal timbro assolutamente riconoscibile anche per via di quella chiara inflessione tedesca che lo caratterizza ancora oggi, ma che al tempo era più marcata.

Si parte subito fortissimo con Metal Heart, zeppa di citazioni classiche, Breaker, veroparadigma dello speed metal e Screaming for a Love-Bite, durante la quale il leader inizia a coinvolgere il pubblico in uno show che lievita sino a diventare un vero e proprio rito collettivo in cui l’audience giapponese, appassionata e partecipe, si lascia coinvolgere entusiasticamente, si prosegue con il bel mid-tempo di Up to the Limit, in odore di AC/DC seguita da una Living for Tonight caricata a mille, e dall’affascinante e cupa Princess of the Dawn, per chiudere la prima parte con l’accoppiata Neon Nights, altro classico tratto da Restless and Wild e Burning, scatenato inno rock and roll, con Udo che si prende per mano il pubblico e, grazie anche all’imponente muro sonoro fornito dai compagni, lo trascina in un tornado musicale di rara potenza.

Secondo disco, ed il livello di decibel e di intensità aumenta vertiginosamente, così come i giri del motore degli Accept che ormai viaggiano davvero a mille: il basso di Baltes incita la folla sulle note di Head over Heels, seguita da una acclamatissima Guitar Solo Wolf in cui il chitarrista dà fondo a tutto il suo repertorio.

Può sembrare un paradosso ma il finale dello show inizia proprio ora, come una sorta di onda lunga che monta lentamente ma inesorabilmente mettendo in fila quelli che sono i classici della band: si parte con l’inossidabile cavalcata di Restless and Wild, si prosegue con la quadratissima Son of a Bitch, che vede Udo sugli scudi, poi con London Leatherboys, bell’esempio di urban rock ruvido e stradaiolo cui fa seguito Love Child, dall’intro epica e dallo svolgimento in pieno stile Saxon.

Flash Rockin’ Man è letteralmente tellurica e contiene tra l’altro un chiaro riferimento agli Iron Maiden grazie ad un’intro che richiama fatalmente Two Minutes to Midnight, uscita però soltanto… due anni dopo!

Dopo un’oscura e cupa Dogs on Leads, anch’essa molto AC/DC style, ecco la doppietta attesa ed immancabile: la prima ad essere servita è Fast as a Shark ovvero lo speed metal portato al massimo possibile dei giri, cui fa seguito il più atteso degli encore, la granitica Balls to the Wall, assolutamente monumentale nei suoi dieci minuti, in sintesi i due brani che, senza ombra di dubbio alcuno, hanno definito lo stile degli Accept: la chiusura è affidata ad Outro (Bound to Fail) che conclude degnamente questa vera e propria orgia sonora per metallari entusiasti, quasi inferociti da cotanta energia: una band ed un pubblico che non si sono voluti affatto risparmiare, mettendo in scena un’interazione totale e generosa.

(RCA/BMG Ariola, 1990)

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