The Tangent – Proxy

(Andrea Romeo – 17 gennaio 2020)

I Tangent sono nati, più o meno nel 1999, quasi come un divertissement da parte di un gruppo composito, e proveniente da differenti paesi, di musicisti di ambito progressive: non si parlava, allora, di progetto parallelo o side project, e questo proprio perché i cinque musicisti fondatori, i tastieristi Andy Tillison e Sam Baine, già nei Parallel or 90 Degrees, il chitarrista Roine Stolt, il bassista Jonas Reingold ed il batterista Zoltan Csörsz, membri dei Flower Kings, erano già titolari di carriere ampiamente avviate e sufficientemente impegnative.
Ma la storia, da lì in poi, ha detto tutt’altro perché, a partire dal primo album, The Music That Died Alone, datato 2003, la band, nelle sue successive e numerose incarnazioni, ha pubblicato altri undici album in studio, e quattro dal vivo, divenendo di fatto protagonista della scena musicale prog del nord Europa.

L’elenco dei musicisti coinvolti nel progetto è davvero imponente, tant’è che solamente Tillison e Reingold sono ancora presenti nella line-up che ha pubblicato Proxy, il loro ultimo lavoro, e questa estrema variabilità è testimoniata dal fatto che, lo stile del gruppo ha subito, nel tempo, mutamenti sostanziali dal momento che, i musicisti transitati nella band, hanno apportato elementi di jazz, funk, Canterbury sound, musica elettronica, fusion, flamenco, acid jazz ma non solo…
Quella del quintetto non è, infatti, musica progressive nel senso classico del termine, e questo proprio perché il termine stesso è stato interpretato proprio nel senso di continuo sviluppo del linguaggio musicale: anche l’uso delle suite, che del prog è caratteristica ormai storicizzata, risulta essere differente dal solito, e questo proprio perché i vari passaggi contenuti sono eterogenei, a volte addirittura in contrasto fra loro, divenendo quasi dei brani, singoli, a sé stanti, collegati solamente da un sottilissimo filo conduttore.
Quando la band però, decide di osare, spingendosi oltre gli spazi musicali più consueti, riesce allora ad esprimere idee brillanti, magari non rivoluzionarie, ma certamente ricche di inventiva e di soluzioni, strumentali e strutturali a volte persino curiose e spiazzanti.

A Case of Misplaced Optimism, il secondo brano dell’album, dall’andamento a tratti neppure tanto vagamente jazzato, è stato curiosamente definito dalla band come “… il tentativo di trovare l’anello mancante tra i Porcupine Tree ed i Jamiroquai”, il che la dice davvero lunga non solo sull’approccio musicale, ma anche sulla varietà, davvero eterogenea, delle influenze che lo determinano.
Contribuiscono, sicuramente, a questo esito così diversificato, la chitarra di Luke Machin (Jeff Beck, Francis Dunnery, Pain of Salvation, Robert Plant), la batteria spesso molto “percussiva” di Steve Roberts (Magenta, Godsticks), ma soprattutto i fiati di Theo Travis (David Gilmour, Steven Wilson, Porcupine Tree, Gong, Dick Heckstall-Smith, Jansen Barbieri Karn, Anja Garbarek, David Sinclair…).

I suoni risultano estremamente attuali, brillanti, venati spesso da un vago sentore malinconico che, le tonalità minori, ampiamente utilizzate all’interno dei brani, enfatizzano spesso, facendo di questo lavoro un album da ascoltare, e da meditare, con estrema calma, cercando di coglierne i differenti aspetti.
Certo, per essersi formato come gruppo, diciamo così, “occasionale”, i Tangent si sono costruiti una carriera di tutto rispetto, partita certamente con il piede giusto (il loro debutto venne segnalato come “album progressive dell’anno”, nei sondaggi di parecchi siti specializzati), ma capace poi di evolversi nel tempo, grazie soprattutto alla varietà di musicisti coinvolti che, l’ecletticità dei due fondatori rimasti, è riuscita di volta in volta, ad amalgamare al meglio.

(Insideout Music/Sony Music, 2018)

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