Neil Peart: “Rest in peace, Bubba.”

(Andrea Romeo – 16 gennaio 2020)

Per descrivere il vuoto che, la scomparsa di Neil Peart, avvenuta a Santa Monica il 7 gennaio scorso, ha lasciato fra gli appassionati, e fra i colleghi musicisti, basterebbe citare quanto scritto, a caldo, dal batterista dei Foo Fighters Taylor Hawkins: “Neil Peart aveva le mani di Dio. Fine della storia.
Un’esagerazione? Forse, anche se la statura del personaggio va al di là dello strumento che ha suonato fino al 2015, anno in cui, dopo l’ultimo tour con i Rush, ha deciso di concludere la propria carriera.

Neil Peart non è stato, solamente, un grandissimo batterista, fra i più grandi di ogni tempo, ma è stato, soprattutto, un uomo di cultura: quando, nel 1974, entra a far parte dei Rush in sostituzione del dimissionario John Rutsey, non solo offre alla band uno stile ben preciso e riconoscibile, basato su poliritmie e su un approccio “totale” allo strumento, ma si dedica anche, cosa che farà fino alla fine, alla stesura dei testi, attività che farà emergere la sua statura di cultore e di studioso di letteratura: Shakespeare, Machiavelli, Nietzsche, Dos Passos, Coleridge, Tolkien, Rand, sono alcuni degli autori ai quali si ispirerà durante gli anni. Proprio per questo motivo i suoi due compagni di viaggio lo chiameranno, sin da allora, “The Professor”.
Se la fantascienza ha avuto un ruolo preminente nei testi, durante gli anni ’70, a partire dagli anni ’80 in poi, i brani scritti da Peart assumeranno connotazioni molto più realistiche e legate alla realtà, e dunque ad ambiti sociali ed umanitari.

Una vita, la sua, che è stata nel contempo ricca di soddisfazioni, professionali ed umane, quanto dolorosa, dal punto di vista privato: nel 1997 ha perso la figlia, Selena Peart Taylor, in un incidente stradale, l’anno successivo la moglie, Jacqueline Taylor, dopo una breve malattia: un uno/due che avrebbe distrutto chiunque.
Contrariamente a quanto si potrebbe pensare Peart, fortunato nell’avere a fianco due amici veri, prima ancora che colleghi (Geddy Lee, voce e basso, ed Alex Lifeson, chitarra) ha salvato sé stesso staccandosi dalla musica, ed intraprendendo un lungo viaggio solitario, in moto, che lo ha condotto dal Canada fino al Messico: una sorta di catarsi, personale, che lo ha allontanato da un mondo che gli aveva certo dato moltissimo, ma tolto improvvisamente tutto.
Il secondo, felice, matrimonio con la fotografa Carrie Nuttall, e la nascita della figlia Olivia, hanno placato, ma forse mai disperso del tutto, i fantasmi del suo passato.

Nel leggere Il viaggiatore fantasma (Ghost Rider: Travels on the Healing Road), libro che scrisse alla fine di quel viaggio, oltre a rimanere toccati dalla vicenda, si scopriranno un uomo ed un autore di rara profondità.
Lettore, dunque, ed anche scrittore (la sua prima opera letteraria, sempre “on the road”, risaliva alla fine degli anni ’80, The Masked Rider, che documenta un suo viaggio, in bicicletta, attraverso il Camerun), anche se la storia della musica lo ha inevitabilmente consacrato stella di prima grandezza in quanto batterista, ma non solo: un cultore, uno studioso dello strumento, un musicista che, fino alla fine, ha cercato di migliorare e non si è mai accomodato sugli allori di una fama ormai consolidata.

In un’intervista del 2011, rilasciata a Modern Drummer, spiegava che “… ci sono tantissime ragioni per cui mi posso permettere di essere un batterista dallo stile così attivo, e la ragione è che pianifico in modo rigoroso le parti di batteria in modo che diano risalto alle parti cantate. Cerco di non essere mai eccessivo. Conosco bene i testi e ne conosco la linea melodica. Non sai quante volte ho sentito colleghi batteristi raccontare che hanno dovuto registrare una canzone prima ancora che fossero scritti i testi, e di quanto questo complicasse le cose”.
I testi li ho scritti io, li conosco…” continuava ridendo. “… ad esempio, so bene quando posso far risaltare il ritmo della voce e gli accenti. È bello poterlo fare. Penso che molti batteristi si sforzino di suonare in modo più semplice di quanto vorrebbero per non correre il rischio di essere ingombranti. È un po’ come per i turnisti: devi essere invisibile. Ma se fai parte di una band devi poter esprimere te stesso”.

Un perfezionista, dunque, da ascoltare attentamente perché, solo così, è possibile cogliere il lavoro meticoloso attraverso il quale ha contribuito a dare spessore ai brani dei Rush: Peart ha vinto, in carriera, una raffica di premi, ha capeggiato classifiche, ma la vera ricompensa a questa dedizione è stato il fatto che, la maggior parte dei batteristi affacciatisi sulla scena rock dalla metà degli anni ’80 in poi, gli deve qualcosa, e molti di loro lo hanno esplicitato con chiarezza: Mike Portnoy (“Neil Peart sarà sempre un mentore e un eroe. La sua influenza su di me è incommensurabile”), Lars Ulrich, il già nominato Taylor Hawkins, Danny Carey, Mark Zonder (“Neil ha reso accettabile suonare fuori dagli schemi.”).

Nel 2005 ha pubblicato un dvd didattico, Anatomy of a Drum Solo, in cui descrive il suo approccio nella elaborazione, costruzione e realizzazione di un assolo di batteria; davvero difficile trovare colleghi così focalizzati su un aspetto del drumming che, i più, mettono semplicemente in relazione con la libertà espressiva tout court.
Nel 2018, Geddy Lee analizzò la scelta di Peart di ritirarsi, ed il motivo per cui i Rush non avrebbero più effettuato tour: “Nei concerti Neil ha faticato molto, per suonare al massimo delle sue possibilità e per resistere al dolore fisico e ad altre cose. È un perfezionista e non vuole salire sul palco e fare anche solo una cosa diversa da quella che il pubblico si aspetta da lui. È quello che lo ha stimolato in tutta la carriera ed è il motivo per cui ha deciso smettere. E io questa cosa la rispetto”.

Ciò che mancherà molto, musicalmente, con la sua scomparsa, è un musicista in grado di realizzare complesse costruzioni ritmiche, ma di farlo sempre in funzione delle emozioni che esprimeva nei suoi stessi testi.

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