Guns N’ Roses – Appetite for Destruction

(Andrea Romeo)

Appuntatevi questa data: 21 Luglio, 1987… nei negozi di dischi appare un ellepì dalla copertina violenta, oltraggiosa, in cui un mostro volante difende una ragazza svenuta da un robot che forse vuole stuprarla; il nome della band, fuori dagli Stati Uniti, dice ancora poco ma i cinque protagonisti si sono già fatti un nome, in soli due anni, nel circuito di Los Angeles, hanno pubblicato da poco un EP, Live ?!*@ Like a Suicide e la casa discografica ha dato loro l’ok per la pubblicazione di un album.

I Guns N’ Roses recuperano brani che avevano già abbozzato durante i loro infuocati show, registrano tra i Rumbo Studios, i Take One Studios ed i Can Am Studios, sempre in California: Saul Hudson “Slash”, chitarre, registra nel pomeriggio e verso sera, William Bruce “Axl” Rose Jr. canta le sue parti fino a tarda notte, Jeffrey Dean Isbell “Izzy” Stradlin, chitarre, Michael Andrew “Duff” McKagan, basso e Michael Coletti, alias Steven “Pop-corn” Adler, batteria, si adattano … in pratica gli studi lavorano quasi h24, e questo per circa un paio di mesi.

Alla “modica” cifra di 370.000 dollari, Appetite for Destruction viene portato a termine; la copertina, si diceva… un po’ per il contenuto crudo, un po’ perché l’autore del dipinto, Robert Williams, aveva dichiarato che la band non gli aveva pagato i diritti, violando dunque il copyright, il risultato fu che l’album venne quasi subito ritirato dal commercio, e successivamente ripubblicato con la copertina definitiva, certamente meno disturbante, ma che divenne altrettanto iconica, e che raffigurava una croce con i cinque teschi dei musicisti, chiaramente riconoscibili.

Un parto complicato dunque, dopo un travaglio altrettanto complesso e ad un costo esagerato, per una band la cui fama non varcava la scena losangelina; se aggiungiamo che si trattava di un esordio, un’operazione che non è esagerato definire “a rischio”.

Dodici i brani ai quali, nella riedizione pubblicata nel 2018 per il trentennale, verranno aggiunti altri, b-sides, tracce live, versioni acustiche e strumentali, l’inedita Shadow of your Love, ed un riscontro clamoroso per un’opera prima uscita in un periodo in cui la scena californiana brulicava di band di livello internazionale; l’album, tra l’altro, ebbe recensioni negative da parte di molti critici che sottolinearono come l’enorme successo conseguito fosse stato favorito dal solito cliché “sesso, droga e rock & roll”, ma i fatti parlarono chiaro: malgrado gruppi quali Kiss, Iron Maiden, Mötley Crüe, Aerosmith, Megadeth, Metallica, Anthrax, Slayer, questi cinque soggetti usciti dai bassifondi di Los Angeles fecero saltare il banco attirando schiere di fans ed imponendosi contemporaneamente anche su MTV.

Debutto al 182° posto della Billboard 200, il 29 Agosto 1987, 1° posto intorno al 6 Agosto 1988, dove restò per un mese, permanenza nella Billboard 200 per 147 settimane, ma non solo: in totale ha venduto nel mondo oltre 30 milioni di copie, 18 solo negli Stati Uniti e la ristampa del 2018 è entrata nella Top Ten dopo trent’anni; Appetite for Destruction inaugurò anche il cosiddetto slaze metal, evoluzione grezza, ruvida, stradaiola e dall’attitudine punk, dell’hair/pop metal, e di cui i GN’R vennero considerati i padrini insieme a Faster Pussycat, L.A. Guns e Dangerous Toys.

I brani dell’album originale sono ormai entrati nella letteratura dell’hard rock/heavy metal: da Welcome to the Jungle (ispirata da un barbone di Seattle che, per spaventare Axl ed un amico, gridò loro: “You know where you are? You’re in the jungle, baby! You gonna die!”) a It’s so Easy, Nightrain, Out ta Get Me, Mr. Brownstone, e poi la celeberrima Paradise City, in rotazione per diversi mesi su MTV, My Michelle, Think About You, fino all’iconica Sweet Child o’ Mine, dritta al primo posto nei singoli, per chiudere con You’re Crazy, Anything Goes e Rocket Queen; dodici tracce che ebbero successo anche prese una per una perché ogni fan aveva, ed ha, il suo brano preferito.

Quanto alla narrazione: la vita, complicata, nei sobborghi di L.A., pesanti allusioni a droga ed alcol, storie di amicizia, di donne, di vino, tutto ciò che ha fatto parte di un decennio travolgente e spesso tragico, di cui la band fu assoluta protagonista.

I Guns N’ Roses irruppero in quella scena con un atteggiamento ed un’attitudine rabbiosi, un suono sporco, graffiante, ma capace di grandi spunti melodici, e ne furono da subito protagonisti non correndo neppure il rischio di uscire con un lavoro monocorde, e questo perché ogni singolo brano era una storia, realistica, vissuta, sofferta, e che andava raccontata in modo diverso dalle altre.

Un debutto che li ha consegnati alla storia ma che ha rappresentato, per diversi critici, non solo il punto più alto della loro parabola, ma anche l’inizio della loro lenta discesa, anche perché replicare un lavoro del genere era davvero molto, ma molto difficile.

La miscela che venne generata dalla fusione tra Hollywood Rose ed L.A. Guns, le band da cui provenivano Rose e Stradlin, la prima, il bassista Ole Beich, il batterista Rob Gardner ed il chitarrista solista Tracii Guns la seconda, subito sostituiti da Slash, McKagan ed Adler, fu qualcosa di esplosivo ed ebbe il pregio, tra le altre cose, di non essere per nulla un fenomeno artefatto: i cinque raccontarono sé stessi, ciò che avevano vissuto e stavano vivendo, misero a nudo la loro vita anche per quanto riguarda vicende non certo edificanti e, proprio per questo motivo, il pubblico li percepì come veri, onesti, credibili, alfieri di un rock tutt’altro che contraffatto o “plasticoso”.

Si staccarono dagli anni ’70, attraversarono gli anni ’80 e, per certi versi, anticiparono ciò che sarebbe poi avvenuto negli anni ’90 nel senso che, all’introspezione del rock alternativo e del grunge, contrapposero la loro attitudine beffarda, irriverente ma con qualche aspetto anche malinconico, da ragazzacci di strada, quella stessa sfrontatezza che aveva messo in crisi il glam rock e l’hair metal, e quell’estetica tutta lustrini, colori sgargianti, latex e capelli cotonati; fecero, con naturalezza e quasi senza accorgersene, una sorta di piccola rivoluzione musicale e di costume che, pur chiudendosi in modo relativamente rapido, ha lasciato un segno indelebile nella storia del rock.

(Geffen Records, 1987)

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