Deep Purple – “Made In Japan”

Deep Purple - Never Before (Live 1972) - YouTube

(Massimo Tinti – 7 agosto 2020)

Ritchie Blackmore aveva sempre la luna di traverso, quasi incapace di parlare con qualcun’altro senza perdere le staffe, senza schiantarlo con uno sguardo truce dall’alto in basso. Il suo alto magistero alla chitarra lo aveva posto in una condizione di onniscienza, in una isolata posizione di conclamata superiorità. Dentro la sua band, i Deep Purple, le scocciature erano infinite per lui: un vocalist, Ian Gillan (altro caratterino da ridere), che infilava la voce sempre negli stessi errori di intonazione; oppure un bassista, Roger Glover, che non aveva ricevuto il battesimo di abilitazione alle improvvisazioni. Ogni giorno gli altri due della formazione, il tastierista John Lord e il batterista Jan Paice, accendono ceri benedetti affinché la baracca non arrivi alle mani: a dire la verità Blackmore era stato speronato due o tre volte da Gillan, reso mansueto con modi spicci da scaricatore di porto. Tutti i bizzosi grilli che girano nelle teste fumantine di Blackmore e compagnia cantante, ammutoliscono all’improvviso aperto il tour di promozione al pluripremiato “Machine Head“: in realtà ognuno dei cinque sente il profumo della storia, il trasformarsi della notorietà in gloria.

Arrivati in Giappone, i Deep Purple vengono accolti da folle che cadono in ginocchio al loro passaggio, che trattengono il respiro in una cornice di straripante devozione. La cortesia goffa dei Deep Purple si trova a mal partito davanti a tante riverenze e salamelecchi, al grottesco modo di adoperarsi dei giovanotti del sol levante: Lord e soci sono in grado soltanto di sguardi e cenni per ringraziare, più qualche discorso pronunciato a bassa voce e passato inosservato. Per esternare la giusta gratitudine, nei giorni 15/16/17 agosto 1972, il tornado Purple riempie di lava e lapilli le città di Osaka e Tokio, le salassa con una cortina di fumogeni al cui interno ruggiscono flagelli palpabili, mani distruttrici.

Una spaventosa evidenza che corre da subito sulla tastiera dell’Hammond di John Lord, sul filo incandescente di “Higway Star” ribaltata dal vigoroso drumming di Paice, dal rapporto con gli spiriti maligni della Fender di Blackmore. Tutti quelli che si aspettano qualcosa di straordinario da subito vengono accontentati, gli stessi che si trovano le budella ribaltate dagli acuti di Ian Gillan su “Child In Time”, dodici minuti partiti con la dolcezza e i colori di un colibrì, per trasformarsi in un divino furore senza tregua fino all’ultima goccia di sangue. Carica a testa bassa “Smoke On The Water” e anche il più volte degradato sul campo basso di Glover, geme qui operoso coalizzandosi con interventi di rara precisione; attorno i suoi compagni perfezionano la propria arte con soli temerari, con trascinanti e irripetibili azioni belliche. “The Mule” è regolata dalla intrepida bravura di Paice, una delle più belle strategie militari dietro ai tamburi di tutti gli anni settanta. “Strange Kind Of Woman” è un altro pezzo di artiglieria pesante praticamente unico, un purgatorio dove la voce di Gillan e la chitarra di Blackmore, decidono di mettersi in contrasto con le loro impertinenze, a gareggiare in un botta e risposta che non smette mai di sfidarsi, di soffrire volontariamente dentro il palazzo infuocato del valore: un duello che sfrega le schiene sul filo del rasoio, un castigo spaventoso di acuti che è deliberato inquinamento acustico.

Dopo quasi un’ora di sentieri scavati nel cuore con un vomere di metallo, arriva la fecondità naturale di “Lazy“, un esercizio hard blues che ha il compito di chiedere perdono per le trasgressioni precedenti, di dare risonanza all’armonica di Gillan e per dissetare i sintomi della fatica. Di botto il grande beneficio di questa pausa viene risucchiato nella folla di onde selvagge di “Space Truckin“, un’animale senza briglie capace di uccidere chiunque con un calcio, una creatura libera che l’organo di Lord e la chitarra di Blackmore spingono insieme nelle praterie della psichedelia, posto dove tutta la forza del suo invincibile carattere possa sbizzarrirsi secondo la natura brada del suo istinto primordiale. I venti minuti coperti di applausi di “Space Truckin” chiudono il sipario su “Made In Japan“, su un disco che ha entusiasmato e tenuto al riparo una miriade di generazioni, le ha cullate con il suo abuso di talento e la venerabile passione per la sconsideratezza del Rock’n’roll.

Un colosso che ha persino rinunciato alla post-produzione per rimanere vero, lasciando senza arrossire anche gli errori commessi, cosi che gli strumenti bagnati del loro sudore potessero “avanzare fino al termine dove non c’è più termine”. 

Made In Japan Deep Purple | Steve Hoffman Music Forums
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