Yellowjackets – Raising Our Voices

(Andrea Romeo – 24 gennaio 2020)

L’onda lunga del jazz-rock, commistione musicale che fece capolino agli inizi degli anni ’70 grazie ad artisti come Miles Davis e Weather Report, iniziò ad esplodere in maniera definitiva, e dando luogo a fenomeni quali la fusion e lo smooth jazz, verso la metà del decennio stesso, e coinvolse un crescente numero di musicisti, quasi tutti di estrazione jazz, affascinati dalla possibilità di incrociare la loro formazione, diciamo così, tradizionale, con questo differente approccio musicale che, indubbiamente, poteva ampliare ed esaltare, e di parecchio, le loro possibilità espressive.

Tra i primi a cogliere queste suggestioni, Robben Ford, chitarra, Russell Ferrante, pianoforte e tastiere, Jimmy Haslip, basso, e Ricky Lawson, batteria, misero in cantiere il The Robben Ford Group, band orientata all’r&b ed al funk che, nel 1981, assunse il monicker definitivo di Yellowjackets esordendo con l’album omonimo.
Da quel momento in poi, un toubillon di mutamenti nella line-up: l’uscita di Ford e Lawson, l’arrivo di Marc Russo al sax, e del batterista William Kennedy, ed il lento spostamento della band, dall’r&b delle origini, verso la fusion, che resterà nella lunga carriera della band il genere di riferimento. Negli anni ’90, ancora un avvicendamento significativo e decisivo, tra l’uscente Russo, destinazione Doobie Brothers, ed il nuovo arrivato Bob Mintzer al sax tenore, sax soprano e clarinetto basso.
Ferrante, Kennedy e Mintzer, ovvero i tre quarti della band, diciamo così, originale, e che appaiono ancora oggi in Raising Our Voices, ultimo nato nella lunga sequenza di lavori pubblicati lungo gli anni; Haslip, infatti, lascerà nel 2012, Felix Pastorius nel 2015, anno in cui al basso, proveniente dall’Australia, farà la sua comparsa il solido e virtuoso bassista Dane Alderson.
Sempre a cavallo fra jazz e fusion, gli Yellowjackets ospitano, in questo lavoro la vocalist Luciana Souza, già collaboratrice, fra gli altri, di Walter Becker, Herbie Hancock, Steve Kuhn, Bobby McFerrin, Bob Moses, John Patitucci e Madeleine Peyroux.

Una fusion decisamente “morbida”, nelle tredici tracce presenti nell’album, con passaggi delicati e quasi romantici, assai distanti da quella sorta di competizione tecnica e stilistica che coinvolse band come questa negli anni ’80.
Allora, probabilmente, la giovane età dei protagonisti, ed il desiderio di emergere, diede luogo ad un fenomeno musicale improvviso, e di amplissima portata, che elevò comunque il livello qualitativo delle composizioni e delle esecuzioni, in maniera davvero esponenziale.
Per gli Yellowjackets, ancora decisamente sulla cresta dell’onda dopo quasi quarant’anni di carriera, due Grammy Awards, come Best R&B Instrumental e Best Jazz Fusion Performance, oltre ad una decina di nominations come Best Contemporary Jazz Recording.
Sullo sfondo, una trentina di album che rappresentano le varie sfaccettature di una storia musicale di altissimo valore artistico in cui tecnica, creatività, capacità interpretativa e varietà di soluzioni, rappresentano i marchi di fabbrica di una band che ha attraversato quattro decadi assorbendo generi differenti, rielaborandoli, e proponendone la propria, personalissima versione.

(Mack Avenue Music Group, 2018)

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