Voivod – Nothingface

(Andrea Romeo)

Dal profondo Quèbec, e precisamente dalla cittadina di Jonquière, oggi assorbita dalla municipalità di Saguenay, prende le mosse una tra le più interessanti avventure musicali proposte dal territorio canadese: nell’anno 1982, affascinati dagli eventi della guerra fredda, dalla letteratura post-apocalittica e dalla science-fiction in generale, Denis “Snake” Bélanger, vocals, Denis “Piggy” D’Amour, guitars, Jean-Yves “Blacky” Thériault, bass e Michel “Away” Langevin, drums, danno vita al progetto Voivod che, negli anni, plasmerà un metal decisamente avanguardistico il quale, dopo aver preso le mosse dal trash metal, transiterà attraverso il prog-metal e lo speed-metal  giungendo a sfiorare l’industrial metal a partire dagli anni ’90.

La band si farà notare immediatamente grazie alla pubblicazione di tre demo, Anachronism, To the Death e Morgoth Invasion e verrà messa sotto contratto dalla Metal Blade di Brian Slagel: debutterà nel 1984 con l’album trash War and Pain, cui seguiranno in rapida successione Rrröööaaarrr, 1986, Killing Technology, 1987 e Dimension Hatröss, 1988.

La svolta fondamentale, che spingerà i Voivod ben oltre i confini del trash-metal, avverrà però nel 1989, quando un significativo avvicinamento alla psichedelia condurrà il quartetto canadese a scelte decisamente radicali: abbandonata la Metal Blade, firmeranno per la MCA, ma soprattutto entreranno nei Victor Studios di Montreal insieme al produttore Glenn Robinson, per dare alle stampe quello che viene a tutt’oggi considerato unanimemente il loro album migliore: Nothingface.

Molti cambiamenti, si diceva, ma soprattutto a livello musicale perché i Voivod, che già avevano abbandonato il trash estremo delle origini, virando verso un approccio più sperimentale e tecnicamente complesso, si spinsero ancora oltre, dirigendosi chiaramente verso un prog-metal ante litteram, grazie anche al fatto che le tracce ritmiche, sino ad allora dirette e serrate, iniziarono ad essere sempre più articolate e dinamicamente molto più elastiche, conferendo al suono della band una varietà di soluzioni estremamente maggiore.

Il minuto o poco meno di Intro già lascia intendere che l’album sarà davvero differente dal solito e la conferma arriva immediatamente perchè The Unknown Knows è certamente un brano di derivazione metal ma, sia per i suoni utilizzati che per le scelte esecutive, a partire da linee di chitarra e basso spesso spezzettate e dagli improvvisi e continui cambi di ritmo (senza trascurare la fisarmonica nel finale…), sicuramente non di impronta trash.

La successiva Nothingface accentua ancora di più le dimensione prog-metal del progetto, non solo per i ritmi sempre più compositi, ma anche per i suoni delle chitarre, sempre più scarichi, e contemporaneamente definiti nel timbro: le notevoli doti esecutive della band risaltano in maniera sempre maggiore, allontanando sempre più i Voivod dalla furia post-punk dei loro primi lavori.

Il punto chiave dell’album e, perché no, dell’intera carriera del quartetto, risiede però senza ombra di dubbio nella quarta traccia, quella che ha definitivamente spiazzato i fans conducendoli, in modo definitivo, verso altri e differenti lidi sonori: la cover di Astronomy Domine, brano di Syd Barrett assurto a vero e proprio simbolo dell’epopea lisergica dei Pink Floyd, non è solo di una bellezza straniante ma restituisce, quando non addirittura amplifica, quell’approccio psichedelico che la band stava già iniziando a sperimentare: a dimostrazione di ciò la successiva Missing Sequences letteralmente intrisa di psichedelia, batteria e basso consacrati definitivamente alle poliritmie ed una chitarra sempre più acida e corrosiva.

X-Ray Mirror invece, recupera in buona parte l’attitudine trash delle origini, filtrata però sempre da un approccio esecutivo assai più complesso ed articolato, cui non è affatto estranea anche una espressività vocale capace di proporre uno stile interpretativo certamente più vario, rispetto agli stilemi del genere, cosa che avviene anche per la successiva Inner Combustion in cui, una linea melodica molto più evidente e definita del solito si abbina ad una prestazione maiuscola di Langevin dietro alle pelli; Pre-Ignition invece, è una sorta di psycho-metal martellato, a tratti quasi ossessivo, un brano diretto che procede senza pause di alcun genere, limitandosi soltanto ad accelerare in alcuni passaggi, quasi fosse un missile, in fase di decollo, assolutamente inarrestabile.

Into My Hypercube, al contrario, più che sul ritmo spinge dal punto di vista melodico, quasi un ritorno all’hard-rock fine anni ’70, primi anni ’80, ma rappresenta davvero il continuo desiderio di ricerca da parte di una band che, una volta scoperte ampie distese musicali da poter esplorare, vi si è gettata a capofitto con una estrema sete di conoscenza e nessun limite, remora o blocco dal punto di vista artistico.

La conclusiva Sub-Effect, brano caleidoscopico ed irregolare, conferma ulteriormente questa linea evolutiva che la band, malgrado i numerosi e significativi cambi di line-up, porterà avanti anche nei decenni successivi, nei quali passerà da momenti più melodici ad altri, specie verso la metà degli anni ’90, ancora più duri e spigolosi rispetto agli anni del debutto, soprattutto grazie ad album come Negatron e soprattutto Phobos, in cui il ritorno ad un approccio psichedelico e sperimentale permetterà al gruppo, divenuto trio, e guidato nello specifico dal cantante e bassista Eric Forrest, di regalare al pubblico un’altra cover di livello assoluto, piazzando in fondo alla track-list una acidissima, e da applausi, 21st Century Schizoid Man.

Una band, diciamo così, futuristica, capace nel tempo di anticipare stili e di cambiare pelle più e più volte, mantenendo sempre e comunque una coerenza artistica ed un livello esecutivo assolutamente impeccabili e regalando album che, come Nothingface, hanno marchiato indelebilmente il loro percorso.

(Mechanic/MCA Records, 1989)

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