Naked Prey – Meteore nel cielo di Tucson

(Andrea Lenti – 12 aprile 2020)

Gli outsiders, i perdenti di classe, hanno sempre fornito spunti culturali e romantici interessanti, soprattutto negli Stati Uniti, paese in cui in realtà sono i vincenti che la fanno da padroni, più che in altri posti dell’Occidente.  Costituiscono una categoria a parte, nobile e rispettata, anche se spesso ai margini, ma celebrata dalla letteratura, dal cinema e dalla musica in particolare.  

Tucson all’inizio degli anni ‘80, non era certamente da considerarsi una città di riferimento in ambito musicale. Linda Ronstadt veniva da lì, portandosi dietro il bagaglio culturale del vivere vicino al confine col Messico ed il deserto. Furono i Giant Sand, i Thin White Rope e i Green On Red a portare per un momento l’attenzione sull’Arizona. Erano gli anni di quel movimento chiamato Paisley Underground, che mischiava psichedelia e chitarre alla Byrds (e molto altro, pop, garage ecc ecc) che trovò in Los Angeles la sua casa naturale.

I Green On Red erano uno dei gruppi di punta del movimento e Van Christian ne era il batterista, ma ad un certo punto lasciò la band e fondò i Naked Prey diventando cantante e chitarrista. Gli altri membri erano David Seger sempre alle chitarre, Richard Badenious al basso e Sam Blake alla batteria. Il loro primo album (Naked Prey) è del 1984 ed è prodotto proprio da Dan Stuart dei Green On Red.

Il loro suono però si discosta dalle band Paisley, assumendo da subito un tono più selvaggio, un ruvido country misto ad un folk- rock and roll distorto e “straccione “. L’ album d’esordio che è considerato (non da me) il loro migliore, in realtà risente ancora un po’ di quelle atmosfere e chitarre un po’ cupe di certi anni ‘80, ma è fuori di dubbio un ottimo esordio. Flesh on the Wall, un’ipnotica The Story That Never Ends ed una cover di Dylan un po’ rivisitata nel testo (Billy The Kid) sono i pezzi forse più riusciti. Ma è da Under The Blue Marlin del 1986 che il loro suono diventa ancora più definito, le chitarre a mio parere si liberano e spaziano con libertà e durezza in vari generi. How I Felt That Day, Rawhead e The Ride sono tirati e ruvidi, A Stranger Never Says Goodbye anticipa alcune atmosfere alla Drive by Truckers, Come On Down e Fly Away sono 2 ballate magnifiche, Voodoo Godhead è un rock’n’roll blues notevole mentre la cover di turno è Dirt degli Stooges.

Il suono diventa più classico nel disco del 1987, 40 Miles From Nowhere , in cui oltre ai pezzi col loro tipico marchio di fabbrica si aggiungono una ballata “disperata” come I’m Comin Home (in cui a mio parere la chitarra sembra un po’ quella dei Pink Floyd) e 2 cover ben fatte, una fedele Silver Train degli Stones e soprattutto una sorprendente Wichita Lineman del country singer Glen Campbell. 

Quello che a mio parere è il loro disco più bello è Kill The Messenger del 1988, a partire da una copertina inquietante e stupenda nella sua semplicità realistica. Un uomo in giacca bianca ed un po’ ingobbito sembra aspettare qualcuno davanti ad un cancello chiuso. Non so perché ma mi ha sempre turbato. L’album è di quelli da avere. Punto. In 2 pezzi la voce di Christian sembra dannatamente quella di Tom Petty (One Even Stand e Blindman), Yardman è ritmata su una base blues, I Saw The Light è un’altra di quelle che io chiamo “ballate allucinate“, Plastic Jesus è un country che nel testo e nelle atmosfere ricorda Faraway Eyes (Stones ), Road Rash è rockabilly, Ike On Mars è rock-funky, Fortune Teller è tirata e cattiva alla prima maniera, Lucky Lager è messicaneggiante, Dr Brown è molto intensa con grandi chitarre e Space è un pezzo che anticipa i futuri Calexico (sempre di Tucson), vento del deserto e solitudine. Sono ingredienti che possono, anzi, devono portare al successo commerciale, ma non succede quasi niente.
Troppo ruvidi, troppi intransigenti, troppo naturali… non si sa mai in queste occasioni.  

4 bei dischi dei quali 2 da incorniciare, ma il treno passa e non si ferma. Apprezzati anche in Europa, vendicchiano ma non sfondano. C’è sempre un motivo, non credo che la fortuna o la sfortuna esistano. C’è sempre una ragione alla fine, per tutti noi. Sta di fatto che nel ‘90 esce un incendiario Live In Tucson e poi la formazione perde i pezzi, non regge all’urto. Nel 1992 esce il buono Jimbo’s Shinebox e nel 1995 And Then I Shot Everyone, con il solo Christian dei membri originali ed ospiti “illustri”’come Joey Burns e John Convertino che stanno formando i Calexico e Chuck Prophet che scrive anche alcuni brani. Qualche rara apparizione sui palchi americani e cala il sipario.

Così finisce la storia di una di quelle tipiche band che per un breve periodo infiammano i cuori inquieti e romantici e che parlano soprattutto ai gatti randagi e selvatici del rock and roll, quelli che non si accontentano quasi mai e continuano a cercare. Il rischio come spesso capita è di enfatizzare troppo le cose: qui non si tratta di capolavori della storia della musica o di dischi che se non li avete sarete per sempre incompleti (quelli saranno al massimo un centinaio), qui si cerca per un momento di far splendere un po’ di luce su dei fantastici outsiders prima che tutto vada nel dimenticatoio di quel tritacarne senza cuore che è la Storia.

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