Ian Dury and The Blockheads – “New Boots And Panties”

(Massimo Tinti)

Quando lo videro per la prima volta, tutti avevano gli occhi spalancati e qualche parola che non si poteva dire incastrata tra i denti.
Ognuno duramente sconvolto in un modo diverso, con Ian Dury che va avanti a cantare e se ne frega di assomigliare ad uno scarafaggio brutto minuto e sciancato.
Capelli corti e con un poco di trucco sparso in tutte le direzioni, dopo solo mezz’ora di concerto a reggersi con un bastone per via della gamba, con la musica che sembra sempre la medesima canzone.
Nessuno dentro quel pub conosce il coraggio di quell’uomo, che è un professore d’arte prestato al Rock’n’roll, a sette anni quasi ammazzato dalla poliomielite, innamorato perso di Gene Vincent e dell’ jazz, solo come un clown alla perenne ricerca di un riscatto sociale.
Bullizzato da monello dentro un centro per disabili, Dury diventa anch’esso stronzo per un istinto di conservazione (memorabili gli scatti d’ira verso l’industria discografica, i musicisti, la moglie e i figli); bravo come pochissimi con le parole e con il disegno, “sempre con la bocca attaccata ad una bottiglia e gli orecchi ad ascoltare il mondo sporco dove vive come un topo”.
Con una band che si chiama Kilburn and the High Roads, Dury scaglia fuori tutto quello che gli corre per la lingua, senza scelta, come fossero sputi a quel pubblico insensibile al suo tormento, versi cavati dalle midolla del suo cuore mangiato dal destino.
Non hanno lampi i due dischi incisi con quella band; fatti con diversissimi ingredienti che cominciano mille discorsi e poi non parlano mai fino a raggiungere la bellezza, a toccare anche solo di striscio l’arte o i benefici di una canzonetta che non funziona ma di cui hai voglia di innamorarti.
Per mancanza di appeal Dury viene licenziato dalla etichetta discografica; un mucchio di vizi nuovi nascono nell’appartamento all’ultimo piano dove abita, quasi tutti figli della perdita di rispetto per sé stesso.
Ma nel bene e nel male Dury è più tosto della pelle dei suoi Dr. Martens da rissa; capace di capire che la fortuna che cerca è nascosta tra la miseria che gli è toccata, nello slang cockney della classe operaia delle aree dell’ East End di Londra, in quei discorsi sporcaccioni.
L’arrivo di quel genio di Chaz Jankel (chitarrista jazz, tastierista, arrangiatore…)
lo porta a riflettere meglio sui propositi della sua impresa, a mettere a fuoco il paesaggio naturale che ha davanti agli occhi e nelle caldaie delle budella; in un attimo le canzoni diventano torce viventi di funky, punk, reggae, ska, calypso, retro Rock’n’roll, di impulsi interiori simili a quelli degli assassini che confessano tutto per spogliarsi la coscienza.
Da una prolungata improvvisazione di Dave Holland ancora in forza a Miles Davis, Jankel ruba il giro armonico del primo 45 “Sex, Drugs and Rock And Roll”; un inno sull’emarginazione delle rockstar, con un’incredibile tiro negroide assicurato dalla robustezza ritmica di Norman Watt Roy e Charley Charles (i loro non sono soltanto intrecci di basso e batteria, ma puzzle tridimensionali che lasciano a bocca aperta).

Bollato come inadatto al successo dalla CBS, il singolo arriva nelle mani della gloriosa Stiff Record sull’orlo del fallimento; gli impareggiabili addetti ai lavori della Stiff trasformano quello svantaggio commerciale in una potente e orgogliosa affermazione di identità, nella felicità istantanea di un milione di poveri che semplicemente vogliono ballare sudando luce.
“Sex, Drugs and Rock And Roll” vende 20 mila copie in pochi giorni e la Stiff non lo ristampa dicendo che tutto il resto è contenuto sull’album in uscita “New Boots And Panties” (che non ha in scaletta l’epocale esordio); una strategia da medaglia al valore che assicura al primo disco solista di Ian Dury (con i Blockheads) vendite superiori alle trecentomila copie e che valgono il disco di platino.
Sulla copertina del long playing Dury appare così com’è, con il fisico devastato dalla polio come un’icona punk, con suo figlio al fianco che guarda altrove; un ritratto squallido e potente di due poveri diavoli tra l’orribile rumore della città, soli come le macchine indifferenti che passano con colori diversi.

Il disco, “New Boots And Panties” (le uniche due cose che Dury non acquistava al mercato dell’usato), è in larga parte depravato, immorale, licenzioso; anche una galleria di personaggi memorabili che appena si riposano un attimo fanno qualcosa che assomiglia ad un gesto romantico, con un filo d’affetto per gli altri che scorre silenziosamente nelle vene assieme all’alcol.
Commoventi e scanzonate le dediche a Gene Vincent (“Sweet Gene Vincent”), al padre di Dury (“My Old Man”), alla classe operaia, alle donne.
La voce di Dury fa schifo, non ha estensione, può essere vera soltanto se rimane espressiva e cruda come quella di un rapper che racconta le storie di Bukowski. Quello che fa la band per farla stare sempre al centro ha del miracoloso; tappando ogni falla con una vasta gamma di stili che vanno dal music Hall dei Kinks alla disco, dal funky della Motown alle bestemmie di Captain Beefheart.

In quel 1977 Dury ha già trentacinque anni, non sa assolutamente nulla di come si possa gestire il successo e dentro casa non ha l’acqua corrente; solo brillantina per capelli e una foto del padre che tira di pugilato.

Dury non riuscì più a fare un disco del valore di “New Boots And Panties”, diventò però, lentamente, una persona migliore; un diverso che piano piano perse la rabbia e anche la voglia di schiacciarsi e respingersi.

Ian Dury muore il 27 marzo del 2000 a soli 57 anni dopo essere stato anche un attore e ambasciatore Unicef.

“New Boots And Panties” è uno dei dischi più venduti del ’77 inglese.

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