Hawkwind – All Aboard The Skylark

(Andrea Romeo – 27 luglio 2020)

Se, nel novembre del 1969, avessero chiesto a Dave Brock che cosa si sarebbe augurato, riguardo al futuro della neonata creatura musicale chiamata Hawkwind, non è detto che, fra le varie risposte che avrebbe potuto dare il cantante e chitarrista di Isleworth, ci sarebbe stato anche un arrivederci a “fra cinquant’anni”…

Eppure è successo davvero: l’anno 2019 ha condotto non soltanto ai festeggiamenti per il mezzo secolo dei creatori dello space-rock, ma anche alla realizzazione del loro trentaduesimo album in studio, ufficiale, ovviamente, perché la discografia della band londinese nata dall’incontro tra Dave Brock e Mick Slattery, tra uscite ufficiali, live, EP, singoli e bootleg di vario tipo, si avvia ormai verso il centinaio di album.

Di quella formazione, il cui nucleo originario allineava anche Terry Ollis, Nik Turner e Michael ‘Dik Mik’ Davies, e che negli anni avrebbe subito decine e decine di modifiche, Brock è rimasto l’unico componente, una sorta di “grande vecchio”, un maestro di cerimonie che ha radunato intorno a se l’ennesima incarnazione di un gruppo che, con All Aboard The Skylark, è decisamente ritornato verso le origini. Dave Brock, vocals, guitar, keyboards, synthesisers, Richard Chadwick, drums, vocals, Niall Hone, bass, keyboards e Magnus Martin, keyboards, guitar, hanno deciso di virare verso quegli spazi dai quali erano partiti i loro “progenitori”, quasi come se, quella degli Hawkwind, fosse una sorta di astronave generazionale, all’interno della quale, durante il viaggio, un piccolo nucleo di civiltà sviluppi la sua intera storia.

E le nove tracce di questo lavoro testimoniano questa sorta di ritorno alle origini: le chitarre di Brock e Martin disegnano arabeschi sonori fluttuanti nell’etere, oppure serrano le fila attraverso riff ossessivi ed oscuri, le tastiere tornano a quei suoni, cristallizzati negli anni da Dik Mik, Del Dettmar, Simon House e Tim Blake, che paiono quasi galleggiare nello spazio, il basso tesse trame precise ed articolate, creando talvolta una melodia quasi autonoma, una sorta di traccia per una batteria che scandisce il tempo in maniera lineare, metronomica, quasi ossessiva, contribuendo a creare l’atmosfera quasi inquietante che traspare in tutto il lavoro.

Le prime due tracce, Flesh Fondue e Nets Of Space sono quelle che più riallacciano i legami con lo space-rock del passato, ma non mancano certo le novità, come ad esempio un uso più ampio delle chitarre acustiche in Last Man On Earth come anche in The Fantasy of Faldum; oltre a ciò, non può davvero mancare la psichedelia pura di We Are Not Dead… Only Sleeping, un brano che, davvero, come anche i successivi All Aboard The Skylark e 65 Million Years Ago, paiono sopraggiungere da un lungo viaggio percorso nello spazio profondo.

Ma un compleanno come si deve va festeggiato come si deve, ed ecco allora che, ad accompagnare l’album, un altro dischetto nel quale gli Hawkwind, con l’inserimento al basso di un ispiratissimo Haz Wheaton, hanno raccolto undici tracce eseguite in acustico che, di fatto, rappresentano la preparazione del loro album precedente, Road To Utopia: undici fra i loro classici rivisitati, e che qui sono ancora nella loro fase embrionale, otto dei quali, dopo un’elaborazione successiva, da parte del co-produttore Mike Batt andarono a costituire l’ossatura dell’album.

Il suono degli Hawkwind, quella caratteristica sovrapposizione di linee melodiche, di armonie a volte dissonanti, quegli strati sonori che i vari strumenti sembrano quasi “appoggiare” uno sopra l’altro, restano, nel tempo, uno dei marchi di fabbrica imprescindibili per una band che, nonostante gli anni, non riesce proprio ad invecchiare.

Potenza, forse, di questa sorta di propensione al viaggio, in qualsiasi dimensione esso si vada a caratterizzare, che ha plasmato una serie di musicisti, differenti per provenienza, ma capaci di votarsi spontaneamente ad una causa univoca.

Chiunque sia entrato nella band, lungo questi cinquant’anni, vi ha portato certamente qualcosa di proprio, ma è irrimediabilmente rimasto coinvolto in un discorso, iniziato prima del proprio ingresso, e che sarebbe comunque proseguito anche dopo l’eventuale uscita.

C’è una sorta di spirito, collettivo, ad animare gli Hawkwind, uno spirito che va davvero oltre i singoli elementi, e che ha determinato la storia di un gruppo, o forse meglio dire di un progetto, tanto sperimentale quanto peculiare, nel suo esprimersi.

(Cherry Red Records, 2019)

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