Gizmodrome – Gizmodrome

(Andrea Romeo – 21 luglio 2020)

Due sono i modi per preparare una ricetta, anche musicale: il primo, certamente più conservativo… si mettono insieme ingredienti (musicisti) più o meno congrui, più o meno assimilabili ed il risultato, magari non sarà clamoroso, ma garantirà un certo ragionevole margine di successo.

Oppure… si prendono quattro musicisti che provengono da quattro mondi diversi, a volte davvero molto diversi: Stewart Copeland (drums, vocals), indimenticato metronomo dei Police, Mark King (bass, vocals), cuore pulsante dei Level 42, Vittorio Cosma (keyboards, vocals), una serie infinita di collaborazioni con i principali artisti italiani, da Pino Daniele a Renato Zero, passando per Roberto Vecchioni, Enrico Ruggeri e PFM, Adrian Belew (guitar, vocals), con Zappa, Bowie, Talking Heads, poi chiamato da Robert Fripp per dar luogo alle versioni ’80, ’90 e ‘00 del Re Cremisi.

Insomma, quattro soggetti dai curricula davvero eterogenei, ma uniti non solo da un bel rapporto di amicizia, ma anche da una voglia, impellente, urgente, di fare musica insieme, divertendosi, soprattutto. Copeland e Cosma lo facevano già da un po’, per piacere e per svago, ma fu il produttore Claudio Dentes a “buttare lì” una frase, che poteva suonare del tipo “ma perché non fate un disco insieme?”, ad instillare quest’idea nella mente dei due amici.
Belew aveva suonato, insieme a Cosma, e ad Elio e le Storie Tese, in un Dopofestival di Sanremo, in una jam che anche in rete ha avuto un successo clamoroso, e coinvolgerlo è stato un attimo; a quel punto l’idea di coinvolgere un musicista che non avesse nulla a che vedere con queste situazioni: Copeland invia un sms a Mark King, il quale, dopo poco, risponde: “Ci sto…”; detto, fatto, i Gizmodrome sono realtà.

Cosa aspettarsi da una “maionese impazzita” che è montata così rapidamente?

Un disco necessariamente divertente perché, per certi versi, i dodici brani che lo compongono assomigliano ad una lunga jam session: uno parte, gli altri seguono, come si faceva da ragazzi, quando in sala prove ci si “annusava” un po’ per capire chi si aveva di fronte.
Non c’è spazio per gli ego debordanti, i leader, le strategie, perché questa è musica fatta per il puro piacere di fare musica, ed anche i suoni seguono questa filosofia: la batteria di Copeland non si smentisce, disegnando schemi ritmici schizoidi e davvero poco ortodossi, nel mentre King gli corre dietro, con il suo approccio funk; Belew, dal canto suo, estremizza una chitarra che non è mai stata ortodossa, andando a cercare suoni e passaggi davvero anarcoidi, in questo affiancato da un Cosma che estrae dalle tastiere suoni colorati e vivaci.

In questo album avviene esattamente il contrario di quanto ci si potrebbe aspettare, conoscendo la caratura e la personalità dei musicisti coinvolti: nessuno suona “addosso” all’altro, nessuna gara a “chi è più bravo”, a “chi mette più note”, nessuna ricerca di complicazioni, arzigogoli o tirate strumentali finalizzate a stupire l’ascoltatore: dodici tracce brevi, immediate, alcune davvero probabilmente solo abbozzate, frizzanti e vivaci; inutile stare a ragionare sul “genere” musicale, perché sarebbe il classico ragionamento sul nulla.

Si può ragionevolmente, e “zappianamente”, dire che Gizmodrome è una session in cui, ciascuno, ha messo dentro ciò che conosce, ma in cui ognuno ha ascoltato, ed ha seguito, quanto proposto dagli altri; il processo creativo è nato in questo modo, e la testimonianza di questo, fra le altre cose, sono i finali dei brani, spesso solo accennati, tirati via, perché è già arrivato il momento di passare al brano successivo, perché “mi è venuta un’idea”, e bisogna cogliere l’attimo.

Un vaudeville di suoni, ritmi, con un Copeland non solo batterista, ma anche cantante che, con voce seriosa, racconta storie di varia umanità, King e Belew che si concedono qualche breve divagazione solista giusto su Sweet Angels (Rule the World), che però è soltanto il quinto brano in scaletta, e che soltanto in Spin This tirano fuori dal cilindro i loro assi, per non dire della surreale Amaka Pipa, storpiatura di american people, e cantata in una lingua talmente stramba da far sorgere il sospetto che l’influenza di Cosma, derivante dalla frequentazione degli Elii, sia arrivata anche da queste parti, sospetto che trova conferma nella strampalata, ma strumentalmente pazzesca, Zubatta Cheve, in cui la voce è, assolutamente, inconfondibile.

Tre quarti d’ora di divertimento e di buon umore, che vanno presi esattamente per quello che sono, anche se la domanda, “lubranamente”, sorge spontanea: si può considerare, questa, una base, peraltro amplissima, per future collaborazioni? Può essere, ma non è detto.

Si tratta di un progetto a lungo termine? Può darsi, ma si vedrà.

Il fatto, in sé abbastanza atipico e sorprendente, è che un album che non è un album, ma un insieme eterogeneo di spunti musicali, sia diventato un piccolo oggetto di culto: certo, i nomi coinvolti hanno avuto evidentemente il loro peso, ma che un lavoro che va in mille direzioni, senza abbracciarne nessuna in particolare, abbia così colpito nel segno, offre interessanti spunti su cui riflettere, con riguardo al come ci si approccia alla materia musicale.

(E.A.R Music/Edel, 2017)

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