Donatella Bardi – A’ Puddara è un Vulcano

(Andrea Romeo)

Ci sono meteore che bruciano rapidamente, abbagliano e scompaiono, senza quasi lasciare tracce, altre che invece illuminano la scena magari per breve tempo, ma lasciando una lunga scia, una coda che sopravvive loro, e ne ricorda il passaggio.

La stella di Donatella Bardi ha brillato, intensamente, per una breve stagione, ma ha segnato indelebilmente un ambito musicale, quello milanese, che l’ha vista prima comprimaria e poi, anche se solo per un attimo, protagonista.

Nasce a Torino, nel 1954, ma artisticamente sboccia a Milano, all’inizio degli anni ’70, dove inizia a collaborare con una serie di personaggi fondamentali per il pop-rock di quegli anni, che la coinvolgeranno come corista: Claudio Rocchi (Volo Magico N°1), Alberto Camerini (Bambulè), Eugenio Finardi (Diesel), Loy & Altomare (Chiaro), Nino Tristano (Suonate Suonatori), Equipe 84 (Se Si Sa Senza Senso), Simon Luca (Per Proteggere l’Enorme Maria); insieme a molti tra questi artisti, ai quali si aggiungeranno successivamente ed in vari periodi Paolo Donnarumma, Ezio Malgrati, Walter Calloni, GianfrancoPepè” Gagliardi, Lucio Fabbri e Ricky Belloni, forma il gruppo de Il Pacco, con il quale esordirà nel 1972, a Zerbo, e parteciperà poi alla Festa del Proletariato Giovanile che si tenne al Parco Lambro dal 13 al 16 giugno del 1974.

Tra il 1976 ed il 1978 collaborerà anche con Demetrio Stratos e Paolo Tofani, membri degli Area, studiando nel contempo canto lirico con la docente Cristiane Payne ma nell’immaginario musicale rimane la ragazza, con la sua chitarra ed una voce meravigliosa che, nel 1975, ha realizzato il primo ed unico album a proprio nome, A’ Puddara è un Vulcano, al quale collaboreranno il fratello sedicenne Lucio, alla chitarra, Gianfranco “Pepè” Gagliardi, alle tastiere, Antonello Vitale alla batteria e Paolo Donnarumma al basso ed alla produzione artistica; come ospiti, il padre Mario, alla voce, Kalvin Boullen alla chitarra funk e Goran Marianovich al violino.

Undici tracce, brevi, veri e propri acquarelli sonori in cui la delicata voce di Donatella penetra davvero nel profondo, persino nel minuto scarso di Forget, il brano che apre l’album, una sorta di piccola invocazione che nasce e si spegne in un attimo.

Con Perché Dovrei Credere la band decolla e la Bardi si lascia trasportare da un gruppo di musicisti ispirato e capace di tessere trame tanto delicate quanto ficcanti: il basso di Donnarumma sostiene la melodia, le chitarra di Lucio Bardi e Boullen si tengono un passo indietro, ma dispensano passaggi di una meravigliosa levità, Vitale e Gagliardi accompagnano con discrezione, ma contribuendo non poco a creare il mood, e la stessa cosa succede in Punto e a Capo, dove una sottile malinconia pervade l’intero brano, dall’arpeggio di chitarra acustica sino alle percussioni, solo appena accennate, che scandiscono il ritmo.

Difficile dare una definizione precisa di questo lavoro perché, quello della Bardi, è uno stile che prende sicuramente qualcosa dal folk, ma anche dal rock acustico, è cantautorale, di base, ma con ampi riferimenti anche al prog acustico: Regina in Questa Età, ad esempio, non è poi così lontana da certe cose dei primissimi Genesis.

Ed anche il rock, con basso e chitarre davvero belle cariche, fa capolino in No (Donatella), in cui alla voce delicata e suadente della cantante si affiancano, in un interessante abbinamento, linee ritmiche molto ricche ed aggressive, ed un solo finale in cui spicca un fuzz che si pone tra il funk e la psichedelia.

Ogni brano un approccio differente, ed ecco allora il violino di Marianovich che caratterizza la linea melodica di Oberator Mask, pezzo rock acustico ispirato probabilmente a certe cose di Finardi, ed in cui c’è anche un gran lavoro di Vitale alla batteria, cui segue A Puddara che, grazie alla voce di Mario Bardi, pittore e padre di Donatella, trascina l’ascoltatore in una taranta mediterranea dal piglio popolare.

Le frequentazioni artistiche hanno indubbiamente trasmesso, alla cantante milanese d’adozione, un profondo gusto per la ricerca musicale, il desiderio di non fossilizzarsi su di un genere specifico ma di investigare sulle numerose idee che, collaboratori di quel livello, le permettevano di esprimere: Cioccolata con Panna ad esempio, torna a quell’atmosfera già ascoltata tra rock e prog, e non è affatto fuori luogo captare qualche, neppure troppo velato, riferimento a certi brani delle Orme.

Diversi anni dopo, Paolo Donnarumma ricorderà: “Io facevo un po’ da coordinatore perché conoscevo il ritmo del lavoro di studio, i tempi e il metodo ma c’era molta libertà. Davo magari delle indicazioni sul suono, perseguivo questa mia ricerca sul suono naturale, senza riverberi, tenendo comunque conto che eravamo agli inizi dell’era della tecnologia ed i mezzi erano quelli che erano: parliamo di 35 anni fa. Siamo andati a Tortona senza aver fatto una pre-produzione, allora non si usava, si entrava in studio, magari segnando qualche appunto, ma poi si faceva tutto lì: la componente umana era assolutamente fondamentale.”

Fratello Antonino è un delicatissimo pezzo per voce, chitarra acustica, pianoforte ed una chitarra elettrica che piazza poche, ma decisive pennate, sicuramente frutto più del lavoro in studio che di una preparazione antecedente, così come la successiva Aeroplano, che pare quasi il frutto di una jam session per la totale spontaneità di musica e parole, ed un basso funk davvero notevole.

Si chiude con un altro brano spot, lo strumentale Per Favore non Sbattere la Porta, un vero e proprio commiato che si stempera poco a poco sino a svanire… così come Donatella che, in punta di piedi, uscirà piano piano dall’ambiente musicale, dedicandosi per diversi anni al teatro con l’esclusione del 1991, anno in cui entrerà nel gruppo musicale Ensemble e con cui pubblicherà l’album Moti Shkon.

Se ne andrà, improvvisamente, otto anni dopo, ancora giovane, lasciando più di un rimpianto tra chi l’aveva conosciuta e frequentata; Alberto Camerini, suo compagno negli anni milanesi, dirà di lei: “Donatella si vestiva con camicioni lunghi indiani, blue jeans scoloriti o con un abito di velluto stile medievale inglese, i capelli lunghissimi e gioielli d’argento indiani. La nostra storia durò cinque anni, fino all’Alpe del Vicerè. L’ho amata molto.

(Btf/Volo Libero, 2010)

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