Yes – Close to the Edge

(Andrea Romeo)

Close to the Edge significa, grossomodo, “vicino al margine” ma anche, ampliando il concetto, “vicino al limite”; la narrazione vuole che il titolo sia stato scelto facendo riferimento al Siddharta di Herman Hesse ma, volendo, la vicenda si potrebbe anche interpretare, con un po’ di fantasia, in un altro modo: gli Yes erano, inconsciamente, consapevoli di essere arrivati ad una sorta di punto di non ritorno, andare oltre il quale sarebbe stato davvero estremamente complicato.

Lo percepì molto bene Bill Bruford, batterista di quella che rimane la loro formazione più creativa, ed artisticamente valida, quando lasciò la band, appena dopo la pubblicazione dell’album, asserendo che: “… dopo Close to the Edge gli Yes non avrebbero potuto che ripetersi o peggiorare…”.

L’album, uscito nel 1972, aveva già un precedente importante, Fragile, pubblicato l’anno precedente: provare a fare di meglio era davvero difficile, ma il quintetto inglese riuscì nell’impresa, consegnando alla storia l’opera più importante della loro intera discografia, passata e futura.
Perché in quell’album c’era proprio tutto: idee, creatività, arrangiamenti, strutture complesse in cui ogni strumento esprimeva il meglio di sé, una musicalità ricca, intrecci sonori in cui l’estro artistico andava di pari passo con la perizia tecnica.

Tre brani, in pratica tre piccole suite, ovvero Close to the Edge, And You and I e Siberian Khatru, per un totale di oltre una quarantina di minuti di musica totale: a prescindere dal fatto che, questo genere, possa piacere o meno, è del tutto evidente che, ascoltandolo con la dovuta attenzione, ci si trovi di fronte ad un’opera monumentale, una vera e propria pietra miliare del rock, nel suo senso più ampio.

Ed è altrettanto evidente che, i cinque musicisti coinvolti, fossero all’apice della propria inventiva: Bill Bruford, si diceva, batterista innovatore, appassionato ricercatore di suoni, sperimentatore anche in ambito tecnologico, ma soprattutto spirito libero, per il quale suonare la batteria non significò solo “accompagnare” la band, ma soprattutto contribuire a costruirne il suono; Steve Howe, chitarrista originale, con un tocco assolutamente peculiare, al punto tale da non aver avuto mai eredi, neppure alla lontana, e questo perché quella tecnica nervosa, ricca di fraseggi staccati e di legature, si è rivelata un marchio di fabbrica unico, inimitabile.
Chris Squire, poi, l’uomo che ha rivoluzionato il ruolo del basso all’interno di una formazione rock: certo, prima di lui altri artisti di livello avevano emendato lo strumento dal suo originario ruolo di semplice “base ritmica”, evidenziandone l’attitudine solista, John Entwistle, ad esempio, in un contesto rock, mentre Jaco Pastorius lo farà in ambito jazz.
Con Squire il passo ulteriore fu la connessione, strettissima, fra lo strumento e la struttura armonica dei brani: il suono del basso diventava parte essenziale del sound complessivo, ed in questo senso non fu affatto casuale la scelta di un modello, il Rickenbacker 4001, con un timbro estremamente peculiare e che, abbinato allo stile particolare del bassista londinese, divenne una caratteristica imprescindibile del suono degli Yes.
L’altro elemento, essenziale per definire questo suono fu, senza ombra di dubbio, Rick Wakeman, the keyboard wizard, l’uomo che traghettò le tastiere della band in un’altra dimensione, fatta di atmosfere ariose, di virtuosismi, di invenzioni: eccessivo, secondo alcuni, ma artista che diede loro un imprinting tale per cui chiunque, dopo di lui, avrebbe dovuto necessariamente misurarsi con quello stile.
Ed infine Jon Anderson, “la voce” degli Yes, perché quel timbro assolutamente peculiare ha segnato indelebilmente la loro intera produzione artistica: impensabile un brano cantato con un’intonazione o una modulazione differenti, tant’è che chi gli è succeduto come vocalist, con esiti quanto meno dubbi, è sempre stato scelto fra artisti che, degli Yes, eseguivano cover.

Un mix musicale esplosivo e che, con questo album, ha offerto probabilmente la miglior prova di sé: la carriera degli Yes è proseguita, per oltre quarant’anni da allora, fra alti (pochi) e bassi, con qualche impennata interessante, qualche svolta inaspettata, addii più o meno temporanei, reunion, momenti di stanca ed improvvisi ritorni di fiamma ma, come preconizzò con una certa lungimiranza il batterista di Sevenoaks, andare oltre sarebbe stato pressochè impossibile.

(Atlantic, 1972)

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2 Risposte a “Yes – Close to the Edge”

  1. Ottima recensione, una descrizione realizzata senza nessun piccolo errore, condivido tutto al 100% e sottolineo che ciò che viene riportato è di grande importanza per identificare una band di questo alto calibro… Anche per me Close to the edge è stata una vera e propria pietra miliare!!!

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