Yellowjackets – Parallel Motion

Non si può fare altro che esprimersi in senso ampiamente elogiativo, e questo già dal primo ascolto, riferendosi a Parallel Motion, ultimo lavoro uscito dalle menti creative di Russel Ferrante, Bob Mintzer, Will Kennedy e Dane Alderson, ovvero gli Yellowjackets, band jazz/fusion statunitense che, pur avendo ormai superato le quarantacinque primavere, non pare avere assolutamente perso quello smalto e quella brillantezza che mostrò sin da quando, ed era il 1977, proprio Ferrante, allora affiancato da Robben Ford, Jimmy Haslip e Ricky Lawson, la condusse all’esordio grazie all’album omonimo, ormai divenuto un classico del genere.

Quarantacinque anni, ventisei album, incluso questo nuovo lavoro che, grazie alle sue nove tracce, traghetta la band nel secondo decennio del terzo millennio all’insegna di un mood intenso, e di un interplay ormai rodatissimo, in cui le doti dei singoli si fondono in un lavoro d’insieme che scorre fluido e naturale sin da Intrigue e Challenging Times (e la sfida viene davvero raccolta, senza tentennamenti…), i due brani che aprono l’ultima creatura del quartetto californiano.

Ferrante e Mintzer si scambiano di continuo il ruolo di leader melodico ma la sorpresa, tutto sommato relativa perché le sue doti erano ben note a tempo, è il “giovane” Alderson, australiano, neppure quarantenne, che si ritaglia non solo spazi importanti ma apporta un significativo contributo alla ritmica, efficace e sempre inappuntabile, di Kennedy, grazie a linee ficcanti, centratissime e che diventano sempre di più il vero e proprio collante del sound complessivo della band.

La title-track è un vero e proprio condensato di questa capacità di “fusion”, perché le giustapposizioni tra gli strumenti sono precise, sempre equilibrate, e permettono al brano di scorrere con una naturalezza che non tutti riescono sempre ad esprimere.

Nessuna forzatura solista, laddove di passaggi solisti ce ne sono, ed anche parecchi, perché l’idea di fondo è proprio quella di creare una musica, per così dire, “d’insieme”, senza esagerare ma cercando di esprimersi sempre al massimo livello: Mintzer volteggia con i suoi sassofoni alla ricerca di atmosfere urbane, Ferrante gioca quasi sempre di sponda, ed il suo tocco, a tratti quasi sommesso, regala lampi malinconici: Alderson e Kennedy, come detto, non solo dettano i tempi, ma lo fanno su piani paralleli e mai sovrapposti, inserendo le loro linee in una sorta di reticolato che sorregge l’intera struttura dei brani stessi.

Onyx Manor è, probabilmente, il passaggio che meglio riesce a definire gli Yellowjackets di questa seconda decade: atmosfere dark, fraseggi minimalisti, andamento felpato, una serie ininterrotta di break e riprese, davvero l’epitome di quella sorta di approccio “urbano” che il quartetto ha sviluppato nel tempo, adattandolo alle mutazioni che l’ambiente circostante ha suggerito loro; Samaritan e la successiva Il mio amico, sono un chiaro richiamo agli anni ’80, a quel sound “smooth” che qualche detrattore non esiterebbe a definire catchy, ma che è diventato, innegabilmente, il suono di quel periodo, almeno per quanto riguarda questo ambito musicale: atmosfere rilassate, quasi pensierose, una estrema cura nelle armonizzazioni, il tutto favorito da esecuzioni e da una produzione asciutte, essenziali, prive di qualsiasi orpello, ed in cui ciò che prevale sono il tocco, la sensibilità, la capacità di piazzare la nota giusta, con l’intensità giusta, ovviamente nel momento più adatto.

La seconda, in particolare, si avvale dell’utilizzo di un pianoforte Fazioli, acquistato di recente, e per il quale Ferrante spende parole davvero entusiastiche: “It’s a spectacular instrument and the resonance and overtones and response you get is really inspiring… we brought it to the studio and used it on the recording, the first workout it got, and as the title says, it’s really my new friend.

Resilience scivola verso lo swing, e risulta essere un brano fresco, frizzante, grazie ad un’esecuzione brillante, briosa, lungo la quale la band si lascia un po’ andare e gioca con i ritmi, mentre con If You Believe una superlativa Jean Baylor, moglie dell’ex-batterista della band (fra il 2000 ed il 2010) Marcus Baylor e loro ospite ancora una volta alla voce, regala una prestazione da brividi: voce calda, morbida, accompagnata, quasi avviluppata dal suono della band, che raggiunge a questo punto vertici di delicatezza e di eleganza esecutiva davvero notevoli.

La conclusione viene affidata ad Early, brano che suona davvero come una sorta di commiato grazie ai suoi passaggi sognanti, e ad un andamento che si potrebbe definire in un certo senso nostalgico: sax ancora sugli scudi, tastiera in sottofondo, basso che piazza poche note, e batteria che si esprime attraverso una ritmica dagli accenti ipnotici, sinuosa, agile e leggera.

Gli Yellowjackets, dopo numerosi cambi di formazione, hanno davvero trovato la quadra che li sta conducendo verso il loro futuro prossimo: una band in gran forma, ricca di idee, di spunti e con una visione chiara e precisa del proprio stile attuale, che le permette di reinventarsi continuamente e di non ritornare mai sui propri passi.

Il tutto con una serenità ed una scioltezza compositiva ed esecutiva che arrivano davvero a sfiorare la facilità espressiva, e che Alderson si incarica di sintetizzare in poche, ma davvero significative, parole: “We rehearsed the tunes on the album maybe three times… I believe we’re only now on this tour performing these songs live, so what you’re hearing are about as fresh as they can be. Everything really came to life in the studio, in those three days.

Un album che, scoperto poco alla volta, sotto una superfice sicuramente attraente e piacevole rivela ad ogni successivo ascolto aspetti inattesi, dettagli affascinanti e ricchi di profondità, per un lavoro che la critica di AllAboutJazz ha acutamente definito: “Plenty of depth, below the smooth surface, and much to enjoy…

(Mack Avenue Records, 2022)

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