Whitesnake – 1987

(Andrea Romeo)

Il David Coverdale che si allontanava dall’esperienza con i Deep Purple, tre album in studio, uno dal vivo, e la sensazione palpabile che, le formazioni MK III e MK IV, avrebbero avuto ancora molto da offrire artisticamente, era un cantante che, entrato nel music business in punta di piedi, aveva ormai piena consapevolezza delle proprie capacità, e la certezza di avere di fronte anni importanti.

La necessità primaria era, inevitabilmente, quella di trovare, o creare, una band attraverso la quale poter esprimere un potenziale elevatissimo, liberando quella voce che, a metà strada tra Paul Rodgers e Robert Plant, rappresentava un biglietto da visita di tutto rispetto; vinse l’opzione due, e la band che il cantante di Saltburn-by-the-Sea mise in piedi, aveva il nome affascinante e sinistro di Whitesnake.

Dal 1977, anno in cui chiamò a sé il primo nucleo di musicisti (Micky Moody, Roger Glover, Simon Phillips e Tim Hinkley), fino al 1986 (ma anche oltre, in verità…), la band non ebbe mai una formazione stabile, ed i sei album in studio realizzati, seppur di ottimo livello e ricchi di idee e spunti interessanti, non riuscirono per così dire a “sfondare”: il “Serpente Bianco” era una buona, un’ottima band, ma le mancava qualcosa per fare quell’ultimo, decisivo, salto in avanti.

Anche l’ottimo Live…In the Heart of the City, pubblicato nel 1980, consegnava al pubblico uno show di gran classe, ma al quale mancava quella scintilla capace di renderlo epico.

C’era la voce, c’era la sezione ritmica (negli anni il bassista principale fu Neil Murray, tutt’altro che un pivello, ed i batteristi rispondevano ai nomi di Ian Paice e Cozy Powell, per dire…) ma, quello che forse mancava, erano uno o due chitarristi con maggiore personalità, capaci di trasportare il suono della band oltre un hard rock abbastanza tradizionale: Micky Moody, Bernie Marsden, Mel Galley erano grandi esponenti della sei corde, ma troppo legati ad un suono anni ’70 che, ormai, stava iniziando a segnare il passo.

Era necessario, per svoltare, incastrare le tessere giuste al posto giusto: nel 1984, il primo e decisivo tassello fu un giovane chitarrista di Reading, John Sykes, già fattosi notare con i Tygers of Pan Tang ed i Thin Lizzy, nel 1986 il secondo tassello, il bassista Rudy Sarzo, cha arrivava da esperienze con Quiet Riot, Ozzy Osbourne ed il supergruppo M.A.R.S., ai quali vennero affiancati il batterista Aysley Dunbar, una lunga esperienza con, fra gli altri, John Mayall, Frank Zappa, Lou Reed, David Bowie, Journey, Sammy Hagar e Jefferson Starship, ed il tastierista  Don Airey, già con Colosseum II, Black Sabbath, Rainbow ed Ozzy Osbourne.

La formazione era teoricamente stabile, senonchè, il biennio 1986/1987, fu davvero il più travagliato per la band, ma anche quello che permise ai Whitesnake di realizzare l’album che mancava, quel 1987 che li catapultò nel gotha dell’hard rock mondiale.

La sostituzione di Dunbar con Tommy Aldridge (Ozzy Osbourne, Black Oak Arkansas, Pat Travers, Gary Moore e Thin Lizzy), l’inserimento di un secondo chitarrista, Adrian Vandenberg, suo il solo di Here I Go Again, non scalfirono un equilibrio tanto delicato ed instabile quanto produttivo.

Delle undici tracce di 1987, almeno otto o nove erano potenziali singoli, che diedero alla band una fama immediata, agevolata anche dalla altissima rotazione dei brani stessi sulle neonate piattaforme video, come MTV, che erano allora in fortissima ascesa negli ascolti.

I “nuovi” Whitesnake si presentarono con una prima traccia, Still of the Night, che ne definiva radicalmente suono, stile ed approccio: una base ritmica incalzante e potente, un tastierista, Airey, che, in anni in cui i synth imperversavano, era in grado di essere tanto misurato quanto ficcante, un chitarrista, Sykes, che li proiettava in avanti per tecnica e scelte stilistiche, ed una voce, quella di Coverdale, ormai nelle sua piena maturità e decisamente stimolata da un’architettura musicale innovativa e ricca di spunti.

Bad Boys, Give Me All Your Love, Crying in the Rain (già registrata nell’album Saints & Sinners del 1982), la struggente ballad Is This Love, che invase l’etere e gli schermi, ed ancora Straight for the Heart, Don’t Turn Away, Children of the Night, per chiudere con l’epica Here I Go Again(anch’essa già su Saints & Sinners), andarono a comporre un puzzle definitivo: al netto del look, abbastanza orientato verso l’hair metal, ed ampiamente sfruttato da band come Def Leppard e Bon Jovi, i Whitesnake erano solidi e la sostanza, data dalla scrittura dei brani, e dalla loro esecuzione, sempre di altissimo livello, venne premiata quando l’album sfondò abbondantemente il tetto dei dieci milioni  di copie vendute nel mondo, di cui oltre otto negli States, insomma, un successo planetario.

Da quel momento in poi la storia del gruppo non è stata certo né lineare né priva di asperità: i musicisti si sono continuamente avvicendati, ci sono state alcune pause durante gli anni ’90, ed una ripresa, nel 2002, che li ha condotti sino ai giorni nostri.

Quarant’anni ed oltre di carriera, non certo facili, ma che hanno lasciato un segno nella storia del rock mondiale: nei confronti di 1987, Coverdale ed i suoi sodali, sono e saranno sempre debitori, per aver spalancato loro le porte del paradiso.

(Emi Parlophone Records, 1987)

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