The Vintage Caravan – Monuments

(Andrea Romeo)

Da sempre ci sono band che, a prescindere dal genere musicale, sono esplose improvvisamente, quasi dal nulla, ed altre che invece sono cresciute nel tempo, iniziando quasi in sordina per poi costruirsi, con costanza e metodo, un loro repertorio, uno stile preciso ed una credibilità riconosciuta.

Gli islandesi The Vintage Caravan, con il loro stoner/prog psichedelico, venato di blues, appartengono ragionevolmente a questo secondo gruppo di artisti, e questo perché il power trio formatosi ad Álftanes nel 2006, grazie all’incontro tra Óskar Logi Ágústsson, Guðjón Reynisson ed Alexander Örn Númason è cresciuto senza fretta, ponderando le scelte un passo alla volta: tre anni di “gavetta”, poi hanno iniziato a fare sul serio e, nel 2009, dopo tre anni, ecco uscire il primo album omonimo, autoprodotto, che li ha messi subito in luce nel vivacissimo ambito musicale nordico.

Ad esso hanno fatto seguito Voyage, nel 2014, Arrival, l’anno successivo e Gateways, pubblicato nel 2018, lavori che hanno rafforzato anche la loro presenza sui palchi di mezza Europa: Roadburn Festival, Wacken Open Air ed Hard Rock Hell sono solo alcuni degli eventi nell’ambito dei quali la band si è esibita, anche se il grande salto è avvenuto nel momento in cui sono stati chiamati ad aprire i concerti degli Opeth, ottenendo un lusinghiero riscontro da parte di un pubblico attento e ricettivo; nel frattempo hanno accolto fra le loro fila il nuovo batterista, Stefán Ari Stefánsson che, nel 2015, ha sostituito Reynisson.

Ottimi riscontri, dunque, per i loro primi due lavori, ed ecco allora il passaggio alla prima major, la Nuclear Blast, ed un paio di anni dopo la firma per la Napalm Records con la quale pubblicano questo loro quinto lavoro, Monuments, grazie al quale consolidano in maniera significativa, ed in un certo senso definitiva, la loro attitudine nel saper dosare le influenze che hanno fornito loro ispirazione, filtrandole però attraverso una personalità sempre più evidente e spiccata.

Rock in un certo senso d’annata, dunque, suonato però con un piglio e scelte di suoni assolutamente attuali, che non fanno affatto dei Vintage Caravan una band che si limita a riproporre, pedissequamente, il passato, tutt’altro: ed è sufficiente ascoltare le prime note di Whispers, il brano che apre l’album con rara potenza, per capire subito che il rock gode davvero, per lo meno da queste parti, di ottima salute.

Quel pizzico di psichedelia, con i suoi suoni dilatati, una batteria, quella dell’ultimo arrivato, ma ormai in forza da sei anni, arrembante, a tratti travolgente, chitarre stoner-oriented, ma con un retrogusto melodico che riporta a certo grunge, affatto secondario, insomma un cocktail ricco e decisamente vivace che, dal vivo, trova certamente la propria espressione migliore.

Ma la band non si accomoda affatto sulle proprie certezze, cambiando radicalmente registro e virando, con Crystallized, verso un rock appena venato di funk che si abbandona ad aperture ariose, alternate a ritmi serrati che rimandano dritto ai seventies più profondi.

Quello che non manca mai, al netto delle sfuriate strumentali, è il gusto per la melodia: i tre ragazzi islandesi cercano sempre di inserire passaggi che si trasformano in una sorta di perno musicale attorno al quale il brano può liberamente circolare, allontanandosi o riavvicinandosi al proprio tema centrale.

Can’t Get You Off My Mind parte subito con un riff ruvido ed acido, da vero e proprio power trio, ma si dirige immediatamente verso un rock più levigato, melodico appunto, che scivola a tratti verso il power pop e l’Aor, ed è seguita da una Dark Times che riprende decisamente le medesime suggestioni ma pigia decisamente sull’acceleratore, proponendo tra l’altro interessanti fraseggi chitarristici e vocali.

Non manca poi la classica ballad, che in questo caso è This One’s For You, un po’ Bryan Adams, un po’ Bon Jovi, e con una chitarra morbida, ammiccante ed a suo modo anche un bel po’ “furbetta”.

Si riprende subito a correre, con la successiva Forgotten, dominata da una batteria scatenata, che detta i tempi ma soprattutto crea improvvisi stop ed immediate riprese che rendono il pezzo irrequieto e serrato, ed in cui non è affatto secondaria una chitarra davvero ispirata nel creare fraseggi.

Sharp Teeth è un brano invece decisamente stoner in cui, ad una sezione ritmica dai tempi serratissimi, si affianca una chitarra aggressiva, che riempie gli spazi e non concede alcuna pausa mentre la successiva Hell dimostra, ancora una volta, quanto sia cresciuta la band a livello di composizione e di arrangiamenti: all’energia che li ha da sempre contraddistinti i Vintage Caravan abbinano ora una scrittura sempre più articolata e ricca di sfumature; Torn in Two, in questo senso, prosegue questo approccio decisamente multiforme in cui si mescolano non soltanto gli stili ma anche, e soprattutto, le scelte musicali.

Si va a chiudere con due brani indiscutibilmente differenti: Said & Done è cupo, quadrato, quasi ossessivo nei suoi ostinati di chitarra e basso mentre la conclusiva Clarity è, probabilmente, il pezzo più interessante dell’intero lavoro, oltre ad essere anche il più lungo: inizia in modo molto soft, con una lunga intro acustica, poi cresce lentamente sino ad offrire un finale intenso, drammatico, quasi epico, in cui la chitarra regna incontrastata lasciandosi andare ad un solo quasi liberatorio.

Sui prossimi (si spera) palchi europei e mondiali il trio venuto dal nord saprà dire, autorevolmente la propria, perché i ragazzi hanno dalla loro le canzoni, lo stile, l’attitudine e le capacità per recitare un ruolo di primo piano; sono cresciuti nel tempo, come detto e, passo dopo passo, hanno sviluppato un loro stile che, ad oggi, non appare del tutto definito, ma ancora passibile di ulteriori trasformazioni ed evoluzioni.

Le idee non mancano affatto, le capacità neppure e dunque… perché fermarsi?

(Napalm Records, 2021)

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