The Skatalites “Marcus Garvey”. Di chi si tratta?

(Nik Maffi – 10 dicembre 2019)

Ascoltando il box della Trojan Records composto da tre cd – dico tre! – intitolato Trojan Mod Reggae Box Set (TJETD020, 2002) mi è saltato all’orecchio un motivetto niente male, super orecchiabile, di quelli che fischietti in bagno sotto la doccia. Ammetto che lo ska e la musica giamaicana provocano in me medesima allegria, forse la godo più in inverno che in estate perché mi fa sognare di essere al bar con un mojito in bella vista, essendo il sottoscritto sempre stanziale in pianura padana e contro tutto ciò che è vita da spiaggia.

Ma torniamo al cofanetto… scopro che il pezzo in questione si chiama Marcus Garvey, dei mitici Skatalites e, fortuna vuole che mi imbatto nel dischetto in quel di Tokyo, e si si cari miei, i musi gialli hanno un debole per la musica made in Jamaica e li vi troverete facilmente dei negozi ben forniti con tante belle chicche in singolo e Lp.

Un particolare invece che, sollecita e solletica le papille gustative di me curiosone si manifesta quando un gruppo arriva a dedicare una canzone a qualcuno, se poi il protagonista (quel qualcuno) è a me sconosciuto, allora sono un cane da tartufi e voglio sapere di chi si parla e il perché un artista arriva addirittura ad omaggiarlo con la sua arte, in questo caso la musica, arte antichissima.

Partiamo quindi. Il 45 giri di cui si parla è del 1965: The Skatalites, lato A The Guns of Navarone, lato B Marcus Garvey (Island Records, WI 168, Uk).

Chi sono costoro? La band emette i primi segnali di presenza nel mondo della musica giamaicana in date approssimative. Viene infatti collocata nella prima metà degli anni sessanta, il 1963 è papabile come data; formatisi attorno alla figura di Tommy McCook (1927,1998), sax tenore, cubano di nascita, precisamente di L’Avana ma trasferitosi in giovane età insieme ai genitori in America per lavoro, come molti giamaicani al tempo, vedi Bob Marley. Per un breve periodo negli States come operaio, entra in contatto con il jazz di John Coltrane e rimane folgorato sulla via di Damasco.

Divagazione: che formidabile collante è la musica! Che intrecci di culture e di relazioni che crea un disco.

Riprendiamo: dicevo, la band ruota intorno a McCook, di ritorno sull’isola caraibica, diventa collaboratore di Coxsone Dodd, proprietario innovatore dei Jamaican Recording Studios e dell’etichetta Studio One.
Gli Skatalites diventano la backing band per la Studio One – come furono i Meters per le etichette di New Orleans, tipo la Josie Records – passano per la band alcuni personaggi importanti nel contesto ska e rocksteady mid sixties, Don Drummond (1932, 1969) al trombone, Roland Alphonso (1931, 1998) al sax, Donat Roy Mittoo in arte Jackie Mittoo (1948, 1990) all’organo e al piano.

Per chi volesse approfondire, le compilation della Soul Jazz serie Studio One sono memorabili ed esiste pure un documentario, prodotto dalla Soul Jazz stessa e disponibile su Youtube, con alcuni protagonisti ancora in vita che approfondisce bene l’argomento.

Il singolo di Guns of Navarone sbanca le classifiche giamaicane del 1965 e, grazie alla distribuzione inglese, entra anche nelle hit list dei giovani emigrati giamaicani lavoranti nel Regno Unito, chi fa arrivare i dischi in Inghilterra? Island Records!
Si la label degli U2, di Marley, quella con la palmetta come simbolo; fondata nel maggio 1962 da Chris Blackwell (1937), nato a Londra, portato pure lui dalle vicissitudini della vita in Giamaica, dove in loco con la collaborazione di Graeme Goodall (1932,2014), pure lui importato dalla perfida Albione ai caraibi. Ingegnere, tecnico del suono, produttore, Goodal insieme a Blackwell sfrutta in madre patria Britannica il fatto di avere un mercato fiorente tra la popolazione immigrata (dalle colonie del fu impero si spostarono in cerca di lavoro e di vita migliore).

Contestualizzando a livello storico, per me studioso dilettante del ‘900, posso ricordare brevemente al lettore che la Giamaica il 6 agosto del 1962 si “stacca” come colonia da mamma britannica, diventa indipendente ma il legame con lo U.K. rimane comunque. Migliaia di lavoratori in cerca di fortuna con famiglie appresso creano un bacino di utenza musicale importante che si scontra però tutti i giorni con il pregiudizio degli autoctoni britannici. Qui trova terreno fertile una figura come Enoch Powell, un politico alla Salvini che si metteva al porto di Liverpool ad aspettare, con manifesti razzisti le navi in arrivo dalla Giamaica, un personaggio, negativo, legato ai conservatori, da approfondire. Per non parlare della cultura skinheads che ruoterà intorno a questo mondo di working class, qui si un vero mix di bianchi e neri che condividevano l’amore per questa musica esotica per i ragazzi inglesi del periodo che, arriverà ad influenzare tramite la figura di Prince Buster, anche i Fab Four.

Torniamo a Marcus Garvey. Perché alcuni musicisti gli dedicarono una canzone?

Presto detto: nato il 17 agosto del 1887 a Saint Ann’s Bay e deceduto nel 1940, figlio di una famiglia bene made in Jamaica, di origine afro-giamaicana. Da giovane studioso e diligente quale è smette i panni di operaio e si butta a capofitto nel mondo sindacale e del sindacalismo. Compie viaggi in aiuto di sindacati di altri paesi limitrofi alla Giamaica, quali il Costa Rica e Panama, fa anche in tempo a farsi le ossa nel Regno Unito in quel di Londra, dove lascerà questo mondo negli anni quaranta. Una figura davvero controversa. Nel 1914 torna in Giamaica e fonda la Universal Negro Improvement Association e ne prende le redini, nel 1916 apre una sede della suddetta a Nuova York, ad Harlem e dove sennò? Professa il pan-africanesimo ed è un teorico della diaspora degli africani sparsi in giro per il mondo. Secondo le sue idee tutti i fratelli discendenti dagli schiavi hanno il dovere di tornare in Africa, boicottare le colonie e il colonialismo e, con unità, fratellanza e un pizzico di black power ante-litteram lavorare per la creazione di una entità continentale chiamata gli Stati Uniti d’Africa, mica poco.

A New York crea una rete di interscambio e sostentamento per attività imprenditoriali fatte da giovani immigrati volenterosi, sostiene negozi di artigiani, parrucchieri, ristoranti. Insomma attivo nel panorama imprenditoriale legato agli immigrati.
Solo che il suo essere rivoluzionario lo porta ad incrociarsi con il Klan (KKK), proprio loro, proprio con gli incappucciati razzisti. Garvey condivide le idee di una separazione delle razze, secondo la sua demagogia con qualunque mezzo si deve difendere la razza, anche con l’uso della violenza, ovviamente la razza nera.
Subisce attacchi dalle left hand e da molte voci legate alla sinistra americana, se in America si può parlare di sinistra, come è giusto fare contestualizzando il progredire della vita di Garvey negli anni dieci e venti del secolo appena terminato, un sentimento di sinistra e dei movimenti legati ai partiti socialisti e comunisti operavano sul terreno dell’operaismo nella turbo-capitalista industrializzata America first, per poi essere spazzata via dal maccartismo.
Anche le organizzazioni ebraiche lo attaccano per certe sue affermazioni antisemite, propagate a profusione dal suo giornale, che pensa bene di aprire e di chiamarlo Negro World!
Nel 1923 viene arrestato per frode ed incarcerato ad Atlanta, quattro anni dopo lo rispediscono in Giamaica e siamo nel 1927; demagogo quale è nel 1929, l’anno della grande crisi, fonda il People’s Political Party, con simpatie destrorse, anti-socialiste. Si spegne nel 1940 a causa di un attacco cardiaco e passa nel dimenticatoio, fino a che il re dei re, Haile Selassie va in Giamaica per presentarsi al suo popolo come l’incarnazione di Gesù, ad indipendenza fresca.
Entra in scena la cultura rastafariana: per i rasta, Selassie è Gesù, senza se e senza ma, in più molti giovani giamaicani si avvicinano a questa cultura che acquista nuovi adepti, vedi Marley.
Nel mentre Garvey e il suo garveyism, siamo già nei sixties inoltrati, ritornano entrambi nelle tematiche di gruppi legati alla figura di Malcolm X, per cui la Nation of Islam e alle Black Panthers, dove il rifiuto della sottomissione e l’emancipazione dei neri può passare attraverso l’uso della violenza.

Mica poco per una canzoncina da due minuti e mezzo.

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