The Pogues – “Hell’s Ditch”

(Massimo Tinti)

Shane MacGowan aveva lasciato tutti i denti tra la carie e qualche rissa, insieme alle buone maniere e agli affetti. Anche dato le spalle al mondo e bevuto ogni tipo di alcolico. Le sue canzoni erano così autentiche da venire morse alla gola dai pentimenti, dagli attacchi di qualche amore deluso, dal sangue che si spargeva di qua e di là. Quando vide i Clash all’ Hammersmith Odeon di Londra, Shane era poco più di un ragazzo, uno allevato a reagire alzando le mani, nell’obbligo sconsiderato del pericolo. Joe Strummer quella sera gli fa capire che diavolo di affare è il Rock’n’roll, che una band può essere un esercito, che in ogni palmo di terreno di questa terra c’è una guerra, una porcheria ingiusta.

I Pogues nascono per reazione a quella esposizione, alla vista della provatissima integrità dei Clash, toccando con le mani sporche di fango quella dimostrazione divina di azione e onore. Ovviamente i Pogues non ce la fanno ad arrivare tanto in alto, ad usare ogni forza residua per dimostrare fedeltà verso una causa, a gettarsi nel medesimo fuoco. Il loro punk, quello dei Pogues, dopo un po’ si stufa di cercare la verità, di voler consolare il mondo, di morire con esso se il copione lo prevede.
Il combat folk che si inventano è soltanto caciara con gli strumenti della tradizione irish folk, una bestia adorabile che ficca sempre il muso in qualche vespaio o piscia controvento.

Shane MacGowan sentiva le voci di mille fantasmi e invece di spaventarsi li invitava a bere, un martirio speso tra eroina e whiskey da far vergognare persino Charles Bukowski.
“Rum, Sodomy, And The Lash” e “If I Should Fall From Grace With God” sono due dischi colossali, due stracci umidi appoggiati sugli occhi tumefatti dopo aver fatto a botte; rumore che se ne va in giro alle prime luci dell’alba prendendo a calci i bidoni, i sogni e i sentimenti.
Acerbi come sono, i Pogues si fanno portare via tutto quel tesoro in un baleno, sbattuto lontanissimo dal mal di vivere del loro capo, da quella sua pericolosa infermità che non ha un avvenire e nemmeno una briciola di conforto.


Gli ultimi arcobaleni di poesia MacGowan li mette dentro “Hell’s Ditch”, un disco del 1990 che è un mezzo miracolo essere riusciti a registrarlo; bellissimo ma odiato da tutti perché si spinge un palmo di terreno di troppo nel commerciale.
Pressato dalle ingiurie della band e dagli strapazzi, MacGowan va avanti nella sua faticosa missione spalleggiato soltanto dal produttore Joe Strummer, l’unico a rendersi conto che quel disco è una patchanka come non succedeva dai tempi di “London Calling”. La musica di “Hell’s Ditch” alza le vele nonostante tutto e gira il mondo; dal Nepal a Hong Kong, dalla prigionia omosessuale di Jean Genet fino alla giacca di Van Morrison, intorno alla fossa dove vive Tom Waits con una cassa di Jack Daniel’s, verso il paradiso poetico di Lorca crivellato di colpi.
Jem Finer e gli altri ce la mettono tutta per farle più belle quelle canzoni, anche se sono incazzati neri, anche se a volte stanno insieme attaccati con il nastro adesivo e la disperazione.
Strummer fa da scudo con il corpo quando la band alza i forconi contro il leader, prende la chitarra e spiega a quelle facce di cuoio come non stritolare un accordo, come si fa ad accarezzare un cuore tenendo una pietra nella mano.
La scrittura di MacGowan è ancora bella come una stella in cielo, gli basta un solo respiro per distruggere e creare, per passare da una parte all’altra del sistema solare con il suo canto schifoso. È chiaro che sta lottando con qualcosa più grande di lui, che spesso la voce non ci arriva, che il suo genio singolare non ha un reame dove stare. Ma resiste, affascinante anche se sta per crepare, anche se pieno di grossolani errori e senza più niente addosso tranne il cattivo odore.


Da “Sunny Side of the Street” fino a “Six To Go”, il fuoco dell’artiglieria Pogues sbalordisce, si lancia al trotto, torna indietro a riprendersi una dolcezza smarrita per la fretta, estende il suo antico dominio fin dove si riesce a vedere.
Il disco esce vendendo pochissimo e il tour per promuoverlo è addirittura una catastrofe, con Strummer quasi sempre al posto di un impresentabile MacGowan, con la musica che avrebbe tutto per sorprendere e che invece si nasconde in una nuvola di rancore e odio.
Shane viene scaraventato definitivamente dal trono e annaspa per molto tempo per la strada, abbandonato, senza guardare dove cammina. Con gli anni invece di morire diventa un’icona in carne e ossa, “stupito di essere riuscito a sopravvivere a tanta sventura”.
“Hell’s Ditch” è lì con lui, un mezzo capolavoro ancora in piedi anche se tutti hanno cercato di abbatterlo, di ributtarlo senza pietà nella tempesta da dove arrivava.

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