The Marshall Tucker Band – Live on Long Island 04.18.80

(Andrea Romeo)

The Long Island date was destined to be the last performance by the original Marshall Tucker Band lineup. Ten days later, bassist Tommy Caldwell died, from injuries sustained in an automobile accident. The group decided to carry on, but things would never be the same again.”

Ignari di questo destino avverso, i sei componenti della Marshall Tucker Band salirono sul palco del Nassau Coliseum di Long Island il 4 Aprile del 1980, regalando al pubblico una serata elettrizzante, grazie ai sedici brani inseriti nella scaletta, vera e propria summa del meglio di ciò che avevano realizzato da quando, in quel di Spartanburg, South Carolina, ed era il 1972, Toy Caldwell, guitar, steel guitar, vocals, Tommy Caldwell, bass guitar, vocals, Doug Gray, lead vocals, George McCorkle, guitar, Paul Riddle, drums e Jerry Eubanks, flute, saxophone, vocals pensarono che le esperienze musicali precedenti, interrotte quando alcuni di loro vennero arruolati, ed inviati in Viet-Nam, avrebbero potuto creare qualcosa di molto più interessante.

Nove album in otto anni per una band che potrebbe affermare, citando i connazionali Grand Funk Railroad: “We’re an American band…” considerando che la proposta musicale ha attraversato buona parte dei generi musicali a stelle e strisce: blues, rock, country, qualche spruzzata di southern rock, accenni prog, alcune puntate verso il jazz-rock, insomma uno stile ed un’attitudine decisamente e volutamente compositi.

Difficile dire se ciò sia stato più un bene che un male: da un punto di vista strettamente artistico certamente un bene, perché il gruppo ha dimostrato ecletticità, dinamismo e capacità di variare stile pur mantenendo una solida coerenza di fondo mentre, in una mera ottica di notorietà, questa tipicità magmatica li ha resi una band relativamente locale, famosa negli States, molto meno nel resto del mondo, specie in Europa dove sono sempre rimasti un fenomeno tutto sommato di nicchia.

Live on Long Island 04.18.80, pubblicato ben 26 anni dopo quella splendida serata, presenta una band al top della forma sin dalle prime note di Running Like the Wind, brano che apre lo show ed in cui il sestetto propone in modo programmatico le proprie influenze stilistiche, oltre ad un inusuale utilizzo dei fiati, specie del flauto, che diverrà un vero e proprio marchio di fabbrica, differenziandoli da molti loro colleghi.

La scaletta scorre attraverso una serie di brani che, ognuno a proprio modo, richiama un pezzettino di America: in Last of the Singing Cowboys si possono cogliere i Tower of Power, ma in salsa country, It Takes Time profuma di Allman Brothers mentre Cattle Drive mantiene lo stesso mood ma, grazie al flauto di Eubanks, acquisisce sfumature vagamente western; si prosegue con See You One More Time, curioso mix tra Dylan ed i Lynyrd Skynyrd mentre la successiva Sing My Blues è un bluesaccio del tutto ZZ Top oriented, cui fa seguito Take the Highway, dai vaghi echi Tulliani rivisitati in chiave yankee, con una seconda parte chitarristicamente torrenziale.

Si arriva a metà serata Heard it in a Love Song dai sentori folk-rock, quasi Eagles, la Marshall Tucker Band ha già sciorinato buona parte del proprio repertorio di fronte ad un’audience assolutamente entusiasta, quando esplode Ramblin’ On My Mind scatenata nel suo mid-tempo ragtime in cui il basso di Tommy Caldwell (immortalato nell’ iconica copertina, stretta parente di quella di Quatro, secondo album della rocker di Detroit, e di 801 Live…) fa davvero la parte del leone.

Da questo momento inizia il lungo gran finale, una raffica di hits che prende avvio da Fire on the Mountain, adorata dai fans, tratta dal quarto album ed omonima del brano dei Grateful Dead, dall’andamento decisamente country-western, cui seguono In My Own Way, ballad “on the road”, malinconica e nostalgica, Desert Skies, rock blues da saloon e 24 Hours at a Time,tiratissimo rock and roll vicino al sound dei Grand Funk.

In questo contesto si possono cogliere le influenze prog rock, nel momento in cui la band si lascia andare ad articolati passaggi strumentali in cui l’improvvisazione diventa l’asse portante dei brani stessi.

Il trittico finale inizia con Can’t You See, delicata e sofferta ballad southern cantata ad una voce insieme al pubblico, prosegue con Searchin’ For a Rainbow, leggera song acustica vicina agli Eagles di Peaceful Easy Feeling, per chiudere con un altro classicone, This Ol’ Cowboy, tratta dal terzo album, interessante shuffle in stile Allman Brothers, suonato in punta di dita, commiato decisamente poco roboante ma del tutto in linea con l’attitudine della Marshall Tucker Band.

La chimica di questo sestetto non ebbe più i medesimi riscontri dopo la scomparsa di Tommy Caldwell, anche se la band esiste ancora oggi e propone quasi duecento show all’anno in terra statunitense, essendo diventata una sorta di istituzione in cui Doug Gray resta l’unico membro originale ancora presente.

Questo doppio live, con oltre quarant’anni sulle spalle, rappresenta il punto di arrivo della formazione storica, l’apice di una carriera che avrebbe, forse, avuto altri sviluppi se le cose fossero andate diversamente: troppo delicata quella chimica, troppo esile il filo che legava i sei musicisti e che, spezzatosi irrimediabilmente, i cinque rimasti non furono più in grado di riannodare.

Rimangono questi sedici brani che fissano definitivamente una storia importante cui è mancata, forse, quella single-hit che avrebbe permesso loro di fare il salto definitivo.

(Ramblin’ Records/Shout! Factory, 2006)

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