The golden age of Blue Cheer – 2° parte

(Alessandro Priarone)

Man, you got any Blue Cheer? I need a boost

Dopo i primi due album capolavoro il chitarrista Leigh Stephens se ne va. Alcuni narrano che il suo ritiro sia dovuto al timore di perdere l’udito a causa del muro di Marshall. Niente di più falso. L’incompatibilità artistica con gli altri due amici determina il distacco. L’unico che in quel momento, può permettersi di inserire il jack della Fender nelle casse ipersoniche, si chiama Randy Holden. Chiamato da Dickie e Paul dopo l’esperienza The Other Half, accetta di buon grado e suona per circa un anno e mezzo con i Cheer in numerose date americane. Nell’album del 1969 New! Improved! è parzialmente presente a causa della repentina fuga. Anche qui emergono le differenti espressioni interne e una forse troppo invadente leadership di Randy.

In tutta fretta vengono inseriti Ralph Burns Kellogg alle tastiere (alias Ethan James) e Bruce Stephens alla chitarra (nessuna parentela con Leigh) dai Mint Tattoo e Gene Estes alle percussioni, che suonano per tutta la facciata A. La differenza è notevole. Non c’è più nulla che possa sconvolgere la pace tra i proseliti dell’Era dell’Acquario. Il protoplasma che trasforma la corrente fonica in lava vulcanica lascia il posto a mitigate asprezze, propense ad avvicinare sonorità addomesticabili quanto l’iniziale When It All Gets Old.  As Long As I Live si rivolge al country rock e I Want My Back Baby a inclinazioni southern. Sorprendente la cristallina It Takes A Lot To Laugh, It Takes A Train To Cry di Bob Dylan. La facciata B presenta invece il guitar god Randy Holden e con lui la band riacquista gli aculei del power trio. Holden inventa tre songs modellando un condensato di pesante eccellenza. Peace Of Mind concentra melodia e apparente quiete mentale. L’ipnotico incedere sembra creare orizzonti nuovi e inesplorati, nel traboccante lirismo enfatico viene disegnato un diamante, che sfiora le tentazioni before-prog-rock del recente trend britannico. Fruit & Iceburg affonda la propria sostanza, tra distorsioni e vibrati, all’interno di una quintessenza vicina agli Iron Butterfly di “In-A-Gadda-Da-Vida”. Honey Butter Lover colpisce con forza il gigantesco gong al termine di un piccolo cameo acustico che sancisce la fine dell’esperienza fulminea di Randy Holden con Peterson e Whaley. 

I just took a tab of Blue Cheer!

Il quarto album, Blue Cheer, viene alla luce nel dicembre del 1969, prodotto nei Wally Heider Studios di San Francisco dalla Philips Records. Prosegue il discorso iniziato dal precedende New! Improved! con Bruce Stephens e Ralph Kellogg. Viene escluso Paul Whaley, alle prese con problemi di tossicodipendenza, a favore del batterista Norman Mayell. Si intravede pure, con l’accredito di due canzoni, il prossimo chitarrista Gary Lee Yoder (ex Oxford Circle e Kak). Rimane il solo bassista Dickie Peterson come elemento originario e tutta l’intelaiatura ne risente. Il blues, la matrice dei Blue Cheer, viene rivisitato senza eccessi estremi, la polvere ristagna convortevole, con un grande ritmo propulsivo. Le tastiere danno qualità e interagiscono attraendo e attirando l’ascoltatore verso lidi rilassati ma ancora incisivi. Pure la voce rimane senza lo slancio selvatico, rimodulando grinta e aggresività.

Splendida la versione di Hello L.A., Bye Bye Birmingham di Delaney Bramlett, i duetti tra chitarra e organo di Ain’t That The Way (Love’s Supposed To Be) o l’attacco formidabile di Fool, scritto da Yoder con le lyrics di Gary Grelecki, impreziosito dall’armonica di Gary che pareggia il mood di John Sebastian, frontman di Lovin’ Spoonful, in Roadhouse Blues dei Doors. Nel settembre 1970 la svolta pop-blues viene ancor più rimarcata da The Original Human Being.

Ai Mercury Sound Studios il feeling scorre tra le sezioni di fiati e la chitarra di Gary Yoder sostituisce definitivamente Bruce Stephens. Anche Peterson da prova di grande maturità artistica coadiuvato dalle tastiere pulite di Kellogg. Il manufatto pesante, contrappuntato dal blues macchiato psych, fornisce un’atmosfera effervescente senza, peraltro, impressionare oltremodo. L’esuberante vigore dei vecchi tempi si manifesta nel groove determinato di Good Times Are So Hard To Find, siglato dal trombettista Kent Housman e dal batterista Norman Mayell. E la trascinante Pilot in cui Gary Yoder autografa il pezzo con il paroliere Gary Ramon Grelecki, come per la gran parte del disco. Due amici che si conoscono da molto tempo e che disegnano le alchimie dei nuovi Blue Cheer. Il rude lamento di Peterson in Man On The Run si scontra con la bellezza della strumentale Babaji (Twilight Raga) dove il sitar di Mayell regala una gemma di rara magnificenza, grazie alle Corde degli Dei, estasiata e suggestiva nel crepuscolo d’Oriente. L’Aurea Aetas termina con il sesto album Oh! Pleasant Hope nell’aprile del 1971 con la stessa formazione del quinto lavoro.

Una strana predisposizione al folk-rock, vicino alle posizioni dei Grateful Dead di Workingman’s Dead senza raggiungere lo stesso livello. Ballate di largo respiro e qualche intermezzo blues, ancora scabro, come Ecological Blues e Heart Full Of Soul. Se i problemi con la droga di Richard Allan “Dickie” hanno ridotto la partecipazione a tre canzoni (“Penso che le droghe siano state un fattore decisivo in molteplici circostanze”) il resto del quartetto non ha lasciato che ciò interferisse con il disincantato ascolto di questo orientamento. E pensare che poco tempo addietro si compiva un allucinogeno esperimento ante-metal, fuori da ogni controllo. Dopo quest’ultimo capitolo arriva lo scioglimento. I Blue Cheer tentano alcune reunion nei seventies senza particolare fortuna. Negli anni Ottanta, con l’album The Beast Is Back, trovano il giusto amalgama e proseguono con discreto seguito e qualche valido spunto artistico.

Le line-up cambiano e si rinnovano, così come le nuove incisioni – due gli album solo di Peterson, Child Of The Darkness (1997), Tramp (1999) – e i frequenti spettacoli live. Sino al 12 ottobre 2009 quando con la scomparsa di Dickie, Blue Cheer, finisce la sua parabola lasciando un’insegnamento maestoso.

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