The Flower Kings – Islands

(Andrea Romeo)

Roine Stolt è un vero e proprio vulcano di idee, un compositore, chitarrista e cantante instancabile che riesce a produrre una mole di musica in tempi che, per altri musicisti, sarebbero se non improponibili, per lo meno molto proibitivi, mantenendo sempre elevatissimo il livello qualitativo di ciò che realizza o contribuisce a realizzare, fatto che coinvolge inevitabilmente anche i suoi collaboratori; dal 2018 ad oggi la serie di lavori messi in cantiere, tra l’altro per nulla semplici, è davvero impressionante: Manifesto Of An Alchemist, come solista, Waiting For Miracles, con i The Flower Kings, una serie di concerti con i Kaipa Da Capo ed infine la preparazione del nuovo album dei Transatlantic, in uscita nel 2021.

In mezzo a questo mare di impegni e sfruttando, come hanno fatto molti musicisti, la pausa forzata determinata dalla sfavorevole situazione sanitaria, è riuscito ad inserire anche la preparazione di un secondo album, a nome The Flower Kings, ed avendo tempo a disposizione ha voluto fare le cose in grande: l’ispirazione c’era, il tempo anche, perché dunque non realizzare un album doppio?

Ed ecco allora, a fine 2020, Islands che, sin da subito, provoca più di un sussulto, a partire dalla copertina il cui tratto, per lo meno per chi è addentro alle “cose di prog”, è più che familiare e riconoscibile, ed è quello di Roger Dean, una leggenda vivente della grafica musicale (Nucleus, Yes, Uriah Heep, Budgie, Gentle Giant, Anderson-Bruford-Wakeman-Howe, Osibisa, Atomic Roosters, Greenslade, Asia, Focus, Rick Wakeman, Steve Howe…) con le sue terre sospese nel nulla ed i personaggi fiabeschi: una certezza ma, soprattutto, un “imprimatur” artistico davvero importante.

Quando si entra nel vivo del lavoro le sorprese non mancano, da diversi punti di vista, perchè Roine Stolt, vocals, ukulele, guitars, additional keyboards, Hasse Fröberg, vocals, acoustic guitar, Zach Kamins, pianos, organ, synthesizers, Mellotron, orchestrations, Jonas Reingold, bass, acoustic guitar e Mirko DeMaio, drums, percussion, pur lavorando “a distanza”, tra California, Italia, Austria, Danimarca e Svezia, hanno bypassato il problema “lockdown”, ed hanno messo in fila ben ventuno tracce, per oltre un’ora e mezza di musica.

Ed è proprio attraverso l’analisi dei brani che si riesce a comprendere come siano cambiati, non solo il modo di lavorare della band, ma soprattutto l’obbiettivo da raggiungere: Island non è un concept-album, come era possibile ipotizzare, ma un insieme di brani che hanno, in linea con i tempi, un tema comune che è quello dell’isolamento.

Non ci sono suites anzi, i pezzi raramente superano i cinque minuti e questo perché la parola d’ordine è concisione: giusto Solaris sfiora i dieci minuti ma, anche in essa, si nota in maniera palese la seconda caratteristica di questo lavoro, ovvero un differente approccio, anche strumentale, da parte di Stolt e compagni.

Usualmente gli album dei Flower Kings ruotavano intorno alla chitarra del musicista svedese che, pur non essendo mai debordante o eccessiva, aveva comunque un ruolo di primissimo piano: in questo lavoro cambiano sensibilmente gli equilibri, perché Stolt fa un mezzo passo indietro lasciando ampio spazio soprattutto a Zach Kamins, il tastierista degli An Endless Sporadic,già noti per aver collaborato alle tracce del video game Guitar Hero 3,che propone non solo un approccio elegante e fluido ma anche una vasta gamma di suoni che si sposano decisamente bene con lo stile della band; in perfetta sincronia si muove il batterista di Pompei Mirko DeMaio, già attivo tra gli altri con Mind Key, Stamina Royal Hunt e coinvolto nel Vivaldi Metal Project, che aveva esordito nel precedente Waiting For Miracles e che ribadisce la sua duttilità e la capacità di saper leggere ed interpretare al meglio i brani.

Quanto a Jonas Reingold, si conferma un bassista di livello assoluto, sia quando accompagna sia quando, invece, detta autorevolmente la linea melodica, complici un tocco ed un timbro definiti e riconoscibili ed un gusto armonico non comune.

Brani brevi, si diceva, e questa è la svolta soprattutto compositiva avvenuta nel songwriting del combo svedese: chi è abituato a prendersi molto spazio per esprimere un’idea musicale, non necessariamente riesce a lavorare altrettanto agevolmente nel corto raggio, a meno di non ridefinire radicalmente i tempi e la suddivisione delle parti oppure ridisegnare pressochè totalmente il proprio metodo di scrittura; molto azzeccato, in tal senso, risulta l’inserimento del sax di Rob Townsend in Serpentine.

Stolt e compagni sono riusciti a compiere questo interessante passaggio tant’è che, le singole tracce dell’album sono vere e proprie canzoni che, anche se in qualche caso possono tranquillamente essere legate in una sorta di continuum, grazie soprattutto ai passaggi di chiusura e di apertura, Journeyman e la successiva Tangerine, vivono comunque di vita propria, si esprimono attraverso stili e figurazioni ritmiche differenti e legate unicamente dallo stile, quello si assolutamente riconoscibile, che la band ha rodato in ben ventisei anni di attività.

Un lavoro agile, scorrevole, aiutato in ciò da una produzione essenziale che ha badato molto a che i suoni non fossero mai ridondanti o eccessivamente “lavorati”, anche quando le chitarre di Stolt e di Hasse Fröberg lavorano in stretto contatto o in sovrapposizione; non c’è una vera e propria “hit”, che tra l’altro il chitarrista di Uppsala non ha mai cercato ossessivamente, ma si nota quanto, brano dopo brano, il livello salga costantemente, offrendo la possibilità a tutti i musicisti di esprimersi al meglio.

(InsideOut Records/Sony Music, 2020)

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