The Dead Daisies – Radiance

(Andrea Romeo)

Dopo ben dieci anni di attività, i Dead Daisies possono tranquillamente essere definiti una sorta di “grande famiglia” perché, nelle loro fila, sono transitati, ad oggi, oltre una ventina di musicisti, che ne hanno caratterizzato lo sviluppo ed il consolidamento di uno stile che appare sempre più definito, preciso e coerente.

Ad affiancare questa volta il fondatore e chitarrista ritmico David Lowy ed il chitarrista solista Doug Aldrich, il confermatissimo Glenn Hughes, “The Voice of Rock”, voce e basso, ed infine un ritorno graditissimo, soprattutto per quanto riguarda i fans, ovvero quello del vulcanico batterista Brian Tichy.

Se qualcuno ricorda i Deep Purple, nella loro edizione Mark III, ecco, i Dead Daisies esprimono qualcosa di simile a quella formazione: riff hard rock assolutamente classici, la voce bluesy unita a qualche lampo di basso funk, da parte di Hughes, un Aldrich come sempre a suo agio nello sciorinare assoli sempre contenuti ma densi e carichi di groove: musica potente, dunque, per certi versi provocante e sinuosa nel suo incedere, capace di catturare l’attenzione già sin primo ascolto.

Perché, diciamolo chiaramente, qui siamo di fronte a musicisti che, grazie ad un’esperienza pluridecennale, nel macinare riffs sono dei maestri indiscussi: qualcuno li potrà definire catchy, che sta fra l’orecchiabile e l’accattivante, ma è un fatto che certi passaggi, una volta entrati in testa, lì rimangono, diventando riconoscibili sin dalle primissime note; gli anni ’70 ed ’80, che poi sono i periodi ai quali Aldrich e Hughes fanno, ovviamente, riferimento, sono una sorta di enorme magazzino nel quale questo approccio stilistico ha stipato decine di brani che hanno fatto la storia, non solo ma anche per il fatto di essere sempre immediatamente identificabili.

Radiance è il settimo album in studio della band australiano-americana, nata quasi per gioco grazie alla passione del fondatore, David Lowy, businessman, aviatore e musicista, primogenito di Frank Lowy, co-fondatore della Westfield Corporation, insomma un ricco rampollo con l’hobby della musica che, probabilmente, ha dovuto anche superare la diffidenza dei molti che l’hanno considerato una sorta di parvenu del rock ma che, grazie alla capacità di mantenere un basso profilo e di circondarsi di musicisti di livello assoluto, porta avanti il nome dei Dead Daisies da oltre dieci anni durante i quali la band ha acquisito non solo una propria credibilità, ma anche un posto di rilievo nel panorama del rock odierno.

Le dieci tracce contenute in questo nuovo lavoro hanno diviso, ma non è affatto un caso isolato, il pubblico “rock oriented”, capace come pochi di accanirsi sui dettagli e sulle peculiarità dei propri beniamini, proprio per l’amore incondizionato verso questo genere musicale in tutte le sue numerose declinazioni.

C’è chi si dichiara entusiasta di questa formazione, che ha sicuramente acquisito un più ampio spettro sonoro grazie all’inserimento di Hughes ed alla sua esperienza pregressa funk/soul/rock, c’è chi invece li preferiva nella versione più stradaiola, grazie all’attitudine street-rock dovuta alla presenza del duo formato da John Corabi e Marco Mendoza, voce e basso: difficile davvero dare un giudizio assoluto in merito perché, tutto sommato, una valutazione di questo genere deriva principalmente dal background musicale di ogni singolo ascoltatore.

Certo è che brani come Face Your FearHypnotize Yourself o Shine On, il trittico che apre il lavoro, trasportati sopra un palco, possiedono un magnetismo immediato e potente, grazie a ritmiche poderose, chitarre aggressive e ad una voce che, proprio nell’essere ruvida e sofferta, porta tutti i segni del tempo e degli stravizi, in sintesi la storia del rock che diventa ugola pronta a celebrare sé stessa.

Riff cupi e pesanti, una malinconia impalpabile eppure presente, quasi a sottolineare una sorta di crepuscolo al quale gli alfieri del rock a base di chitarre non si possono né si vogliono rassegnare: il solo di Aldrich sul secondo brano va a toccare davvero quelle corde profonde che l’interpretazione di Hughes aveva già lasciato scoperte.

Ma non c’è tempo per sentimentalismi eccessivi perché, se con Shine On si riprende a correre a rotta di collo, Radiance e Born to Fly dipingono ben altri orizzonti: oscura e cupa la prima, con chitarre plumbee in stile Black Sabbath, potente e quasi anthemica la seconda, l’apoteosi del riffing al massimo della propria espressività.

Ed il “lato B” dell’album non è certo da meno: Kiss the Sun rimanda a quell’american-style che aveva caratterizzato la band a metà dello scorso decennio, Courageous addirittura ad un rock targato anni ’70, da cantare a squarciagola all’interno di uno stadio o di un’arena, Cascade sfiora i territori del doom, ma regala un pathos ed un’interpretazione di livello assoluto.

Si va a chiudere ed allora ecco Not Human, altro pezzone granitico, sicuramente da headbanging e che per questo motivo, soprattutto dal vivo, farà inevitabilmente la propria figura, seguita dal brano curiosamente più rilassato dell’intero lavoro, Roll On, un rock-blues intenso, malinconico, che a sprazzi ricorda le ballad dei Whitesnake pur essendo, tutto sommato, meno “piacione” e più emotivamente energico.

Tanto groove, melodie accattivanti, energia e potenza che le chitarre riescono a fatica a tenere sotto controllo, e tanta espressività: i Dead Daisies, giunti a questo punto della loro storia, sono ben rappresentati da queste caratteristiche, alle quali si aggiunge una cura nei dettagli e negli arrangiamenti per cui i brani non risultano mai troppo carichi o ridondanti; uno stile che si può definire classico, certamente, ma che non ispira neppure troppa nostalgia per i “bei tempi andati”, quanto invece una vicinanza, una assonanza con fraseggi che hanno accompagnato molti fans nella loro storia di appassionati di musica, e che non li hanno mai abbandonati.

Se proprio vogliamo definirli potremmo utilizzare, in senso positivo, il termine rassicuranti: il buon sano vecchio rock continuerà a distillare prodotti che, anche in futuro, rappresenteranno comunque una certezza…

(SPV/Spitfire Music/Steamhammer Records, 2022)

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