The Claypool/Lennon Delirium – South of Reality

(Andrea Romeo – 9 ottobre 2019)

Breve storia di due musicisti, ma soprattutto di due persone, che non potrebbero, neppure se lo volessero, aspirare ad essere considerati due soggetti, semplicemente, “normali”.

Uno di loro, il più anziano, è il bassista e l’autore di un gruppo iconico quale è quello dei Primus, band che, su Google, viene definita come: “… miscuglio di funk, metal, punk rock e psichedelia, sposato con un’estetica freak e zappiana…”, per cui, di “originale” ha, in ordine sparso: i suoni, le canzoni, l’approccio, il linguaggio, lo stile e, perché no, il look.
Il secondo (ma per una semplice questione di ordine alfabetico), e più giovane, ha innanzitutto un cognome assolutamente fin troppo ingombrante, al quale si uniscono un timbro vocale, ed un’attitudine compositiva, che rimandano maledettamente all’illustre genitore.

Che il connubio tra questi due personaggi abbia assunto, come denominazione, quello di The Claypool/Lennon Delirium, oltre a non stupire affatto, probabilmente risulta essere la cosa, appunto, più normale, all’interno di questa intrigante vicenda artistica.

Ed intrigante, South of Reality, lo è veramente, così come lo era anche il suo predecessore, ovvero il debut album del duo, uscito nel 2016, che aveva come titolo Monolith of Phobos, ma con una differenza sostanziale: se, allora, i due si erano lanciati in questa avventura con un approccio che poteva essere del tipo: “Siamo consci di farcela, vediamo dove andiamo a parare”, questo secondo capitolo pare più all’insegna del: “Possiamo andare dovunque, dunque andiamoci”.

Risulta chiaro che, definire musicalmente questo lavoro, risulta non solo impossibile, ma soprattutto sinceramente inutile; siamo di fronte ad un lavoro che si potrebbe definire un work in progress in stile zappiano, più che altro per la quantità, la qualità, la curiosità e la schizofrenia dei richiami musicali: i Beatles, e non potrebbe essere altrimenti, ma quelli più onirici, psichedelici e propensi al viaggio, in tutti i sensi, e poi Zappa, se non altro per l’ironia degli accostamenti sonori e per l’uso delle parole, la psichedelia floydiana del Syd Barrett più lucido e creativo, a tratti la malinconia rabbiosa di Janis Joplin, soprattutto in alcuni passaggi sonori di Blood and Rockets, ma anche qualche scorribanda dalle parti dei Gong, o dei Soft Machine.
Les Claypool si dimostra un bassista assolutamente geniale, soprattutto perché evita nel modo più assoluto qualsiasi deriva virtuosistica, laddove invece sottolinea, con un timbro pulito, brillante e definito, i passaggi principali dei brani.
Sean Lennon, del tutto riappacificato con le caratteristiche vocali che lo associano, inevitabilmente, all’illustre genitore, si impadronisce dei brani dando loro un’impronta caratteristica e ben precisa, quel carattere “progressivo”, nel senso di orientato alla ricerca, che era già apparso nell’EP Lime and limpid Green in cui, nel 2017, si erano cimentati con quattro cover che erano più che programmatiche: Astronomy Domine, Boris the Spider, The Court of the Crimson King e Satori (Enlightenment), Pt.1.

Ci sono anche, in questo nuovo lavoro, passaggi più dark, come ad esempio l’intro di Amethist Realm che però, con l’incedere del brano, sembrano svanire in favore di aperture più melodiche se non addirittura, a loro modo, romantiche e questo per confermare ulteriormente che, da parte dei due, non ci sono paletti o recinti di alcun genere.

Sarà anche un delirio, come affermano i due, ma è un delirio davvero avvincente, soprattutto perché, all’inizio di ogni brano, non si sa, né si immagina, ciò che potrà succedere.

Verrebbe proprio da dire: “Have a nice trip”…

(Prawn Song Records/ATO Records, 2019)

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