Terry Callier “The New Folk Sound Of Terry Callier”

(Massimo Tinti)

Queste canzoni sono state scritte da altri e appartenute a molti. Gioielli della tradizione e cultura popolare pronunciati col cuore fuori dalle labbra, da mille interpreti differenti, delicatamente variati in base allo stato d’animo.

Terry Callier li prende nel fermo della propria convinzione, di ognuna di queste canzoni pigia il punto vitale, ci getta dentro lo sguardo fino a renderle ancora più belle, memorabili. Nel pomeriggio del 29 luglio 1964, Callier le registra una dopo l’altra presso gli studi Webb Recording di Chicago; tutte e senza mai distrarsi, bere un bicchiere d’acqua, senza mai abbassare l’ammirazione per quell’enorme patrimonio. La Prestige, la casa discografica, ha prenotato lo studio per sole otto ore, dall’ora di pranzo a quella di cena; prendere o lasciare. Sotto lo sguardo glaciale del produttore Samuel Charters, i pensieri di Callier cavalcano fuori dalla mente, vorrebbero essere privi della presenza di quell’uomo che fuma, che mette ansia, che nelle pieghe dei calzoni ha la cenere e il mito di aver lavorato con Muddy Waters. Però Charters e pure la fortuna di Callier, un professionista che non lascia nulla al caso, che spalanca tutto il suo sapere per rendere ogni cosa splendida, furiosa come un mastino o silenziosa come il muschio nel bosco.

Con Callier in studio ci sono solo i contrabbassi di Terbour Attemborough e John Tweedle, due sconosciuti virtuosi che mescolano tempi dall’appeal ricercato, essenziale, toccante, intrisi di jazz, soul, Africa, blues. Il loro spaziare dal 4/4 al 2/4, al 6/8, ricorda insieme il suono divino e la malasorte, il cupo borbottio straziato di “Olè” di John Coltrane, quasi tutto quello che faranno poi i Pentangle.

L’acustica dello studio è capace di garantire con naturalezza una grande stretta nell’anima, pare che il suono si equalizzi per l’intervento dello stesso demiurgo che ha plasmato il mondo, con quella grazia, semplicemente. La Martin di Terry Callier diventa qualcosa di bello da subito, aggancia quelle melodie al volo, crude e spirituali, con il blues del sud che incontra il folk di Chicago, con gli echi e i riverberi posizionati millimetricamente, che volano. Delicata ed eterea arriva la voce di Callier, un timbro che non si impara da nessuna parte, caldo e vero come quello di Nina Simone, con la terra e il cotone addosso, la pelle nera, l’odore della felicità scappato via.

La cover sono otto e tutte hanno assorbito in misura uguale il bello e il brutto della vita, ammaliate da ritmi lenti, da volute che salgono in alto come il fumo e poi si disperdono, si purificano, si riempono di sentimento aspettando di trovare le mani giuste per posarsi, respirare. Qua e la Terry Callier si inventa il Nick Drake che verrà, quel fenomenale amico dei delfini di Fred Neil; ispira con “Spin Spin Spin” e “It’s About Time” l’epopea della rock band H. P. Lovecraft.

Dentro “Cotton Eyed Joe” e “Johnny Be Gay If You Can Be“, si ha l’idea che i protagonisti delle storie non torneranno mai più a casa, o torneranno diversi e nessuno li riconoscerà più.

La registrazione perfetta mette a nudo la verità e l’emozione di chi ha suonato, racconta la luce che filtra dalle finestre, il buio negli angoli, le mani che corrono su e giù sugli strumenti, le corde che vibrano abbracciando le note.

Finito di registrare “The New Folk Sound Of…“, il produttore Samuel Charters fugge in Messico pressato da alcuni creditori; nella sua macchina ci finiscono pure i nastri del disco e i sogni del giovane Terry Callier.

Il disco esordirà maldestramente solo quattro anni dopo, gettato a caso dalla Prestige in qualche negozio, freddamente; senza offrire all’arte di “The New Folk Sound Of…” il giusto palcoscenico, l’accesso umano di cui aveva bisogno.

Terry Callier, dopo aver fatto ogni attività per crescere la figlia, presterà nuovamente il suo talento alla musica solo nel 1972, incidendo nuovi dischi bellissimi, a loro modo unici, coinvolti in una forza originale e poetica.

Nessuno però all’altezza soprannaturale di “The New Folk Sound Of“, con quella magia che ti inchioda servendosi solo di una voce, una chitarra, due contrabbassi.

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