Stanley Clarke Band – The Message

(Andrea Romeo – 16 dicembre 2019)

A volte, per cogliere il significato di un album musicale, può essere sufficiente anche solo guardarne, attentamente, la copertina, perché proprio da quell’immagine si comprendono molte cose, tra cui l’approccio, le motivazioni, le intenzioni che ne hanno innescato l’ideazione e la realizzazione.
La frase potrà sembrare anche più che inflazionata ma, davvero, Stanley Clarke, è un musicista che, dopo quasi cinquant’anni di carriera, non ha bisogno di alcuna presentazione; soprattutto è un artista che, pur non dovendo certamente dimostrare più nulla, stante il fatto che le decine di album nei quali ha suonato, parlano ampiamente ed in modo esauriente del suo valore, non pare avere alcuna intenzione di smettere di rimettersi in gioco.

La copertina, si diceva, ovvero quasi una dichiarazione di intenti: in primissimo piano tre giovani musicisti, Mike Mitchell, drums, Cameron Graves, synthethyzers, e Beka Gochiashvili, piano, synthethyzers, che poi sono i collaboratori più stretti insieme ai quali, The Message, è stato realizzato e, ma soltanto un passo indietro, ed in una posa plastica che si colloca a metà tra l’atteggiamento paterno e quello di un docente. Lo stesso Clarke, quasi a spingere i suoi giovani colleghi a dimostrare, loro stessi, ciò di cui sono capaci.

E le undici tracce registrate sono lo specchio fedele di questo approccio: pochi, ed assai circoscritti, gli spazi in cui il bassista e contrabbassista di Philadelphia si concede qualche divagazione solitaria, ad esempio The Message, la title track, oppure la Bach Cello Suite 1 (Prelude), per solo contrabbasso, molti di più invece i momenti in cui, come da copertina, fa un passo indietro, limitandosi ad accompagnare i suoi musicisti, lasciati liberi di esprimersi in brani che vanno dal jazz al pop, e dove a momenti intimi e riflessivi, Lost in a World, o anche The Legend Of The Abbas And The Sacred Talisman, si alternano a passaggi più sperimentali ed innovativi, in cui si inseriscono anche strumenti etnici (Salar Nadar, tabla), come After the Cosmic Rain/Dance of the Planetary Prince, che rieccheggia in modo manifesto quel progetto musicale, avanti anni luce, che furono i Return to Forever, fondati nel 1973 insieme a Chick Corea.

E questo approccio, decisamente molto aperto, anche nella scelta dei collaboratori, ha coinvolto numerosi altri giovani musicisti: Doug Webb, sax, Chuck Findley, trumpet, french horn, Michael Thompson, guitars, Skyeler Kole, Trevor Wesley, Doug E Fresh, Chris Clarke e Sofia Sara Clarke, vocals, Dominique Taplin, synthethyzers, Mark Isham, trumpet, Ron Stout, trumpet e Dwayne Benjamin, trombone.

Non mancano, sicuramente, i brani più strettamente “fusion” o comunque virati verso un jazz più libero ed adatto al virtuosismo, come The Rugged Truth o Alternative Facts,in cui la perizia strumentale, non solo di Clarke, ma di tutti i musicisti coinvolti, viene messa al servizio di una musicalità ariosa, quasi liberatoria, come se un gruppo di puledri, rinchiusi in un recinto, venisse improvvisamente lasciato libero.

Per un musicista, diciamo così, “ampiamente navigato”, confrontarsi con artisti giovani, che lo amano, lo rispettano, ma non sono certo messi in soggezione dalla sua grandezza, può essere davvero un passaggio chiave verso una nuova giovinezza artistica, e lo può essere certamente in misura maggiore rispetto a qualche, pur rispettabile ed a volte anche auspicabile, reunion con i “vecchi amici”.
Musicisti con percorsi più brevi, per ovvie questioni anagrafiche, vissuti in un’epoca più recente e privi quindi di un retroterra “storico” di lunga data, possono fornire stimoli, scardinare schemi consolidati, spingere ad innovare, a percorrere strade differenti, se non altro per capire dove si possa andare a parare.
Stanley Clarke non si sottrae affatto a questa sfida, anzi, va proprio a ricercare questo approccio musicale: glielo permettono la sua esperienza, la sua tecnica, la sua apertura mentale; del resto, essere stati dei riconosciuti innovatori, agli inizi della propria carriera, conduce necessariamente ad esserlo ancora oggi.
Un grande artista, si riconosce anche da questi particolari…

(Mack Avenue Records, 2018)

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