Spock’s Beard – The Light

(Andrea Romeo)

Una domanda interessante da proporre, in certe circostanze, ai componenti di una band, potrebbe suonare più o meno in questo modo: “Aver esordito con il lavoro che, a distanza di anni, viene considerato ancora come il vostro migliore, o comunque il più significativo, ha creato più vantaggi o svantaggi alla vostra carriera?”.

Questo quesito andrebbe sicuramente posto agli Spock’s Beard, ed andrebbe fatto con riguardo a The Light, il loro debut album uscito ormai nel lontano 1995; ma andiamo con ordine.

Due fratelli nati a Van Nuys, nella San Fernando Valley, Neal Morse, cantante, chitarrista e tastierista, ed Alan Morse, chitarrista, iniziano a scrivere, e ad eseguire, la loro musica nei primi anni ’90 e, fra i demo registrati all’epoca, esiste già una versione abbozzata di quella che sarà la title track del loro primo album.

Cercano altri musicisti e li trovano in John Ballard, bassista, e Nick D’Virgilio, batterista: non sono giovanissimi, e dunque possiedono già una certa esperienza ed iniziano a lavorare sui demo, nel mentre Dave Meros sostituisce Ballard al basso; poco prima della pubblicazione “imbarcano”, inizialmente come turnista, poi come membro effettivo, il tastierista giapponese Ryo Okumoto.

Ah già… il nome, “la barba di Spock”, riferimento all’episodio Specchio Specchio, della serie “classica” di Star Trek, in cui l’Enterprise si trova catapultata in un universo parallelo, noto ai trekkie come universo dello specchio, in cui il primo ufficiale Spock ha la barba: leggenda vuole che, ad una festa, Neal, o Alan (questione controversa) abbia esclamato: “Wow, sembra che siamo finiti in un universo parallelo, come quella puntata di Star Trek in cui Spock aveva la barba (beard). Ma poi, Spock’s Beard! Non è un nome figo per una band?“.

Alla lista dei 92 nomi, raccolti dai membri della band, venne aggiunto per scherzo anche questo, vedi tu alle volte…

Detto fatto: The Light uscì, per l’etichetta Metal Blade, in un periodo in cui, i primi anni ’90, l’universo prog era praticamente prossimo al collasso, dal momento che, le band anni ’70 avevano più o meno decisamente virato verso il pop, mentre quelle anni ’80, dopo un inizio più che promettente, iniziavano a perdere drammaticamente quota, uscì e fu un “botto” inaspettato e potente.

Quattro brani, fra cui due suite, The Light e The Water, e due pezzi più brevi, Go the Way You Go ed On the Edge, ed una domanda, quasi ovvia: com’era possibile che, in un periodo in cui la brevità era la caratteristica, e quasi la necessità, dei brani, un album in cui si andava dai sei minuti del pezzo di chiusura ai ventitrè della seconda suite, potesse funzionare?

Il motivo, forse quello principale, risiede proprio nell’approccio alla composizione che, in questo lavoro, introdusse Neal Morse, un metodo che lo caratterizzerà lungo tutto l’arco della sua carriera, anche nelle band che fonderà, o in cui militerà, successivamente: i brani sono, come dire, “ciclici”, hanno un’introduzione, certo, ma poi le sequenze attraverso le quali si sviluppano, sono composte da parti che appunto, ciclicamente, vengono riproposte, o anche solo accennate, ma che ritornano e si fissano nella memoria.

Volendo azzardare delle possibili influenze si potrebbero considerare, quali ipotetici riferimenti, i Genesis di The Musical Box, The Fountain of Salmacis, Supper’s Ready, The Battle of Epping Forest, oppure gli Yes di Heart Of The Sunrise, Close to the Edge o Starship Trooper, ovvero quei brani in cui gli appassionati, ma anche gli ascoltatori meno addentro alla materia, riescono a fischiettare non solo le parti cantate, ma anche quelle strumentali perché, ripetute più volte lungo lo svolgimento del pezzo, si fissano nella memoria.

Una sorta di paradosso, dunque, per cui la musica, comunemente ritenuta più complessa ed articolata, diventa quasi… cantabile.

Eppure The Light funziona, e funziona anche per questo, ma non solo: blues, soul, jazz, prog elettrico, lampi di musica latina, psichedelia, qualche passaggio più “catchy”, quasi pop, non tanto mescolati quanto invece giustapposti, ed anche influenze mai celate, anzi, chiarissime ma mai ripetitive; non ci sono ammiccamenti ad opere del passato, ma quelle opere appaiono filtrate attraverso nuovi suoni, nuovi ritmi, fonte di ispirazione per andare altrove, tant’è che l’album scorre via piacevolmente senza avere momenti di stanca o appesantimenti di sorta.

Tornando al quesito iniziale, risulta davvero difficile rispondere: il vantaggio è stato, indubbiamente, quello di partire subito con il vento in poppa, mentre lo svantaggio può essere considerato quello di non avere avuto il tempo per una crescita progressiva, ma di essersi dovuti riconfermare praticamente da subito.

Più o meno a mezza via, si può collocare l’essere coscienti del fatto che, con quell’album, avrai a che fare per tutta la tua carriera, e questo perché un punto così alto non potrà mai essere ignorato, a prescindere da ciò che di buono potrai fare successivamente: c’è chi riesce a farsene una ragione, serenamente, chi invece, ad un certo punto, decide quasi di abiurare le proprie origini.

I riferimenti ad altre band, ed altri artisti del mondo del prog sono, ovviamente, assolutamente voluti.

(Metal Blade/InsideOut Records, 1995)

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