Sons of Apollo – M.M.X.X.

(Andrea Romeo)

Che i Sons of Apollo non potessero limitarsi ad essere un gruppo “one shot”, lo si era capito, in maniera chiara, esattamente nel momento in cui, dopo la pubblicazione del debut album, Psychotic Symphony, l’esito di questa uscita discografica, sia in termini di pubblico che di critica, era stato decisamente superiore alla pur fortissima attesa che si era generata prima.

Ed anche dopo la pubblicazione, due anni dopo, di Live with the Plovdiv Psychotic Symphony, la domanda che aleggiava nell’aria era, più o meno, la stessa, ovvero dove sarebbero andati a parare, questi cinque musicisti, e con quali intenzioni.

Va anche detto che, parlare per l’ennesima volta di “supergruppo” è ormai operazione abbastanza banale e fuori contesto, considerando il fatto che, tutti i componenti della band, avevano ed hanno, tuttora, una vita musicale davvero complessa, nella quale “mettono lo zampino” in più di una band, anche di genere differente e, miracolosamente, riescono a portare avanti queste attività, sia in studio che dal vivo, realizzando incastri davvero acrobatici, relazionandosi peraltro con altri artisti che, chi più chi meno, si trovano esattamente nelle loro condizioni.

Nel frattempo, riescono anche a comporre musica, scambiandosi files e registrando ognuno per conto proprio, prima di ritrovarsi per risuonare ed assemblare il tutto, e questo perché i musicisti 3.0 lavorano in questo modo, sfruttando la tecnologia ed ottimizzando i tempi.

Che il secondo lavoro non solo potesse proseguire il discorso iniziato nel 2017, ma ne ampliasse la portata, era cosa immaginabile, ma soprattutto auspicabile e, di fatto, M.M.X.X. conferma in maniera evidente queste ipotesi: i cinque si conoscono meglio, interagiscono di più e, soprattutto, sono riusciti a bilanciare in maniera più equilibrata non solo i ruoli dei singoli strumenti, ma proprio la chimica sonora che permea l’intero lavoro.

Il fatto di collaborare con altri musicisti di livello, in altre situazioni, ha sicuramente accresciuto il tasso di creatività della band, ed ha messo in moto tutta una serie di input che, nelle otto tracce dell’album, traspaiono in maniera evidente: Mike Portnoy torna, in un certo senso, a “complicarsi la vita”, ma lo fa in tutta scioltezza, Billy Sheehan riscopre l’importanza di groove di basso più “sotterranei”, Derek Sherinian affida il suo suono, ricco e presente, ad una serie impressionante di tastiere “vintage”, Ron “Bumblefoot” Thal smette, per un momento, i panni del guitar-hero, rinuncia a buona parte dei funambolici assoli per dedicarsi, con attenzione e dedizione, ad articolate e ricche sezioni ritmiche, Jeff Scott Soto trova, di fatto, otto differenti terreni sui quali mettere a frutto l’ecletticità della sua voce e della sua attitudine interpretativa.

I Sons of Apollo, insomma, non si sono affatto adagiati sugli allori, non hanno sfruttato, come potevano serenamente fare, l’onda lunga dell’album precedente, ma hanno voluto fare un passo più in là, che li ha condotti ad esplorare le varie possibilità espressive che il prog-metal offre ad un gruppo di musicisti che appare quanto mai coeso e capace di esprimere un interplay che va davvero molto oltre la semplice somma sei singoli.

Prog-metal, come detto, Goodbye Divinity, ma anche hard-rock, Whiter to Black, spruzzate di nu-metal, Asphyxiation, momenti più meditativi e cupi che non sfociano nel doom soltanto perché, la melodia, è sempre fortemente presente, Desolate July, dedicata all’amico bassista David “Z” Zablidowsky, mancato nel 2017.

Lo si potrebbe definire, correttamente, un album poliedrico, ricco di differenti sfaccettature, in cui i membri della band portano una parte delle proprie influenze ma le adattano reciprocamente in modo da non sovrapporsi.

La suite finale, New World Today sintetizza, nei suoi quasi sedici minuti, le intenzioni che animano questo lavoro in cui, passato e presente, si rimescolano per l’ennesima volta e preparano il terreno a quella che potrà essere l’evoluzione di questo genere musicale nel secondo decennio del terzo millennio.

La strabiliante tecnica individuale è, ora, in grado di autoregolarsi, così da poter proporre una musica ricca, articolata, a tratti anche complessa, ma sempre e comunque accessibile anche a coloro che non siano degli ascoltatori “di stretta osservanza”.

Quello che sorprende, e decisamente in positivo, da parte di un gruppo di musicisti impegnati singolarmente su più fronti, è l’elevato tasso di creatività: non ci sono riempitivi, in M.M.X.X., non ci sono brani “tirati via”, ma ognuna delle otto tracce è il frutto di un lavoro meticoloso e mirato, finalizzato ad esaltarne le caratteristiche.

Traspaiono, in generale, un forte senso di libertà creativa ed una conseguente gioia, nel dare una forma ben precisa alle numerose idee che, menti musicali così fertili, sono in grado di produrre e proporre.

Come si suol dire: “Sit down, listen, ad have a good time…”.

(InsideOut/Sony Music, 2017)

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