Soft Machine – Hidden Details

(Andrea Romeo)

Ci avevano lasciato, artisticamente, ovviamente, nel 1981, con un album, Land of Cockayne, francamente trascurabile, e che non rendeva certo onore né alla loro storia, né agli otto album precedenti, ognuno ei quali aveva rappresentato un’evoluzione, rilevante, rispetto al precedente.

Trentasette anni dopo, i Soft Machine sono tornati con un nuovo lavoro in studio, un ottimo lavoro che, diciamo così, rappresenta il loro “vero” nono album.

Dei membri originari, quelli che, nel 1966, si incontrarono, iniziarono a fare musica, e decisero di farne un mestiere in una località, Canterbury, nel Kent, divenuta una sorta di catalizzatore artistico, nella formazione targata 2018 non rimane più nessuno: Daevid Allen e Kevin Ayers se ne sono andati entrambi, non molto tempo fa, Robert Wyatt nel 2014 ha annunciato la fine della propria carriera musicale, Mike Ratledge ha pubblicato il suo ultimo lavoro solista nel 2013.

A raccogliere il testimone di quella che è considerata una delle più rilevanti, se non la più rilevante, band espressa dalla cosiddetta scena di Canterbury, il chitarrista John Etheridge, che con i Soft Machine suonò a partire dal 1975, sostituendo Allan Holdsworth, il bassista Roy Babbington, ex Nucleus, entrato in formazione nel 1973, entrambi rientrati a più riprese in progetti paralleli quali Soft Works e Soft Machine Legacy, il flautista, ex Gong, Theo Travis, già presente nei Legacy, ed il batterista, anch’egli ex Nucleus, John Marshall, di fatto il membro più “anziano” della band, in quanto entrato in formazione nel 1971 in sostituzione di Wyatt, e che ha partecipato anche a tutti i vari spin-off della band.

Prodotto da John Hiseman, leggendario batterista dei Colosseum scomparso tra l’altro poco dopo la fine delle registrazioni, Hidden Details riallaccia i fili di un discorso interrotto oltre tre decenni fa, e lo fa senza tornare sui passi precedenti, ma tenendo sempre presente quel mix di psichedelia, free-jazz e jazz modale che ha da sempre caratterizzato il suono di questo gruppo.

La title track Hidden Details, la successiva ed ipnotica The Man Who Waved At Trains con il basso di Babbington quasi in loop, la straniante Ground Lift sono alcune tra le diverse espressioni di questo lavoro, che ricollega i Soft Machine di oggi alle loro origini.

Ma ci sono anche i restanti brani, che definiscono compiutamente la poliedricità di questa nuova incarnazione della band: le delicate Heart Off Guard e Broken Hill, una Flight Of The Jet di pura sperimentazione, One Glove, che profuma di Mahavishnu Orchestra, e poi la riproposizione di Out Bloody Rageous (Intro e Part 1), dall’album Third; introdotta dalla breve Drifting White, l’episodio più lungo dell’album, quella Life On Bridges che risulta essere un vero tour de force, soprattutto per la sezione ritmica, chiamata a districarsi all’interno di un dedalo, privo di un tempo preciso, e dunque di non facile soluzione.

Il basso ipnotico di Babbington torna in primo piano con Fourteen Hour, diretta, scandita, decisamente agli antipodi rispetto al brano precedente, a dimostrazione del fatto che, i quattro musicisti, amano giocare a carte scoperte, mettendo in luce tutte le qualità di cui sono dotati ed esplicitando al meglio le caratteristiche che hanno fatto, dei Soft Machine, una band da sempre innovativa ed amante della sperimentazione.

Si chiude con Breathe, episodio etereo, una sorta di commiato rarefatto e sospeso, guidato dal flauto di Travis, quasi a far svanire, lentamente, i suoni che hanno reso denso e consistente l’intero lavoro.

Tanto di cappello, dunque, ad una band che, con questo album, ha reso innanzitutto onore a sé stessa, alla propria storia ed alla propria classe, riavvicinando a sé i fans di lunga data ma anche, perché no, creando curiosità nei confronti di chi li conosceva poco, o non li conosceva affatto.

(DYAD Records, 2018)

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