Sleep – Sleep’s Holy Mountain

(Andrea Romeo)

Tra San Diego e San Francisco, stessa costa, ci sono all’incirca ottocento chilometri di distanza eppure, dal punto di vista musicale, la distanza risulta essere decisamente maggiore: a San Francisco, metropoli freak, culla della psichedelia, città che ha dato i natali, e più di un domicilio iconico, alla musica west coast, si contrapposero Los Angeles, e di riflesso San Diego, luoghi certamente più “difficili”, in cui iniziarono a crescere due fenomeni musicali, dissimili ma per certi versi paralleli, ovvero l’heavy metal, poi tramutatosi in trash metal, negli anni 80, ed il rap, o meglio il West Coast hip hop/rap, a partire dagli anni ’90.

Suoni differenti, dunque, ma soprattutto stili di vita differenti, per lo meno fino a quando, un terzo, composito, ambito musicale, iniziò a fare capolino, andando ad assorbire i suoni più ruvidi della Greater Los Angeles, mescolandoli con gli stimoli e le pulsioni psichedeliche della Bay Area: lo stoner rock, ed il parallelo e più oscuro doom metal, furono i terminali di questa sorta di migrazione musicale.

Quando Al Cisneros, Chris Hakius e Matt Pike, affiancati da Justin Marler, entrarono in studio per registrare Volume One, i neoformati Sleep non immaginavano certamente di essere sul punto di contribuire ad innescare un vorticoso susseguirsi di eventi, che avrebbero modificato sensibilmente il panorama sonoro, non solo californiano.

La band fu subito circondata da un seguito di fans decisamente accaniti, registrò un secondo EP, Volume II, registrò lo split di Marler, che si ritirò a vita monastica, e come trio, appassionato e devoto agli strumenti ed alle sonorità vintage, si avviò a dare alle stampe Sleep’s Holy Mountain, l’album che, a detta dei più, avrebbe definito compiutamente il genere stoner/doom.

Cisneros, ed i suoi bassi Rickenbacker (recentemente ne è stato realizzato, in soli 420 esemplari, un modello “signature”, che porta il suo nome…) e Pike, con le sue Gibson Les Paul, circondato da un muro di amplificatori Orange, Hiwatt o Matamp, hanno marchiato a fuoco un album che, più di un critico, ha definito seminale nell’evoluzione del nascente genere stoner, tanto che, ancora oggi, malgrado la band si sia presa una pausa, fra il 1998 ed il 2009, gli Sleep sono considerati una sorta di icona, di simbolo, un totem rispettato, quasi riverito, nell’ambito di una scena che si è sviluppata in maniera esponenziale, valicando l’oceano e trovando terreno fertile soprattutto nell’Europa del nord.

Bastano già solo le prime note di Dragonaut, il brano che apre l’album, per captare distintamente da dove abbiano tratto ispirazione i tre californiani: Black Sabbath, in primis, specie per quanto riguarda Pike, certamente influenzato da Toni Iommi, ma anche Blue Cheer, Blue Öyster Cult, Hawkwind, e dunque accordature basse, suoni pesanti, riff cadenzati e granitici, ritmi spesso rallentati, che producono brani rivestiti da una sorta di cappa psichedelica, onirica, allucinata, brani che divengono via via una specie di mantra.

Ma Sleep’s Holy Mountain non è soltanto questo: ci sono le improvvise fughe “velocistiche” di The Druid, lo “scream/quasi growl” sabbathiano di Evil Gypsy/Solomon’s Theme, sette minuti di puro furore, l’improvviso ed inatteso intermezzo bluegrass di Some Grass, anche se, la potenza del trio ritorna, prepotentemente, con Aquarian, in cui basso e chitarra esprimono compiutamente, e con i loro timbri sonori distintivi, quelle che diverranno le coordinate di un nascente genere musicale, al quale non saranno estranee, occasionalmente, sottili venature acid rock.

Strana vicenda, quella degli Sleep: dopo quest’album, di fatto, la band si sciolse, ed i tre intrapresero altre strade, dopo che, nel 1995, venne loro rifiutata la pubblicazione del successivo album, Dopesmoker/Jerusalem, in pratica un singolo, monolitico, brano di quasi un’ora, giudicato impubblicabile dalla casa discografica; ricomparvero soltanto diverso tempo dopo, nel 2009, anno in cui riproposero per intero l’album dal vivo.

Da quel momento in poi, una seconda vita, nuovi lavori, pochi, in verità, ed assai centellinati nel tempo, ma la consapevolezza di dover essere per sempre grati a quel disco che, una (allora) piccola e coraggiosa etichetta discografica anglo/americana di Nottingham/New York, la Earache Records, aveva accettato di pubblicare esattamente come lo aveva ricevuto dalle mani dei musicisti… come a voler dire, “no overdubs…”.

Si potrebbe dire, serenamente: “Ha trent’anni, quasi, ma non li dimostra…”, ed è vero perché, quei semi piantati allora, sono cresciuti e si sono sviluppati con una coerenza davvero sorprendente, assorbendo e proponendo certamente nuove suggestioni (ed anche il grunge, per lo meno quello delle origini, deve, certamente, qualcosa a queste band…) ma senza mai rinnegare le proprie radici.

(Earache Records, 1994)

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