Shorter-Carrington-Genovese-Spalding – Live at Detroit Jazz Festival

(Andrea Romeo)

Qualche addetto ai lavori l’ha definito un quartetto intergenerazionale, perché di fatto mette insieme quattro musicisti di quattro epoche differenti, e questo fenomeno si sta allargando a macchia d’olio perché sono parecchi i musicisti “storici” che decidono di unire le forze con musicisti più giovani, spesso molto più giovani, creando un transito bidirezionale di esperienza e di entusiasmo che permette ai primi di trovare ancora nuovi stimoli, ed ai secondi di poter usufruire, direttamente, di un bagaglio di esperienza unico ed irripetibile.

C’è dunque Wayne Shorter, sassofonista da Newark, New Jersey, classe 1933, una carriera per raccontare la quale ci vorrebbero pagine e pagine, e forse non basterebbero neppure, al fianco del quale troviamo Terri Lyne Carrington, batterista da Medford, Massachusetts, nata trentadue anni dopo, nel 1965, che ha lavorato con il gotha del jazz mondiale, ed ancora Leo Genovese, pianista e tastierista da Venado Tuerto, Argentina, classe 1979, un’importante passaggio con i Mars Volta; infine la più giovane della compagnia, Esperanza Spalding, bassista, contrabbassista, compositrice e vocalist da Portland, Oregon, nata nel 1984 ed esplosa artisticamente verso la metà degli anni 2000, con la quale Genovese collabora da anni.

Generazioni differenti, background differenti, percorsi differenti, eppure un linguaggio comune che si è sviluppato grazie all’ascolto ed alla condivisione delle esperienze musicali, diventando vero e proprio bagaglio musicale e culturale; il 3 Settembre del 2017 i quattro si sono trovati sul palco del Detroit Jazz Festival, per un evento “one shot” di rara bellezza ed intensità, durante il quale, a detta degli stessi protagonisti, più che suonare semplicemente, si è creata musica.

La Carrington ricorda: “We rehearsed some themes earlier that day, but the preparation was really from our lives and profound experiences with each other.” ed il senso di questo incontro è esattamente questo, ovvero partire da un canovaccio di massima, cinque brani, all’interno dei quali intraprendere percorsi di improvvisazione, dettati dall’estro del momento, andando a cogliere un’ispirazione momentanea che diviene immediatamente terreno di scambio.

Già agli inizi degli anni 2000 Shorter aveva intrapreso l’avventura del quartetto, insieme al pianista Danilo Perez, al bassista e contrabbassista John Patitucci ed al batterista Brian Blade ma, nel 2017, aveva deciso di proporre una formazione differente, declinata al femminile, della quale avrebbe dovuto infatti fare parte la pianista e compositrice Geri Antoinette Allen; la scomparsa della Allen, nel giugno di quello stesso anno, ha trasformato Live at Detroit Jazz Festival in un omaggio, postumo, un tributo alla memoria della musicista di Pontiac, Michigan.

Wayne Shorter performs at the 2017 Detroit Jazz Festival.

Un’interazione libera e fluida che parte da Someplace Called “Where”, composizione di Shorter risalente al 1988, in cui il quartetto si concede tutto il tempo necessario per prendersi le misure, il sax attende quasi un paio di minuti per palesarsi nel mentre pianoforte e piatti creano un’atmosfera sospesa di attesa, mentre il contrabbasso emerge, quasi fosse alle spalle degli altri, con minime puntualizzazioni.

Un brano suonato, letteralmente, in punta di dita, senza palesare la minima sensazione di fuga in avanti, né alcuna smania di protagonismo, in cui ogni protagonista attende ed accompagna l’altro fino a che la Spalding, e la sua voce, prendono tutti per mano.

La lunga cavalcata, quasi ventidue minuti, in cui si concretizza Endangered Species, scritta in origine da Wayne Shorter e Joseph Vitarelli nel 1985 e poi ripresa e riarrangiata dalla Spalding nel 2012, è l’epitome dell’intero lavoro, l’espressione più chiara di cosa significhi creare musica mentre la si suona, perchè il brano originale viene dilatato, arricchito, rimodulato grazie anche all’inserimento di diversi passaggi free, venature funk: un work in progress unico, irripetibile perché gli “obbligati” vengono ridotti al minimo, sono giusto una traccia lungo la quale incamminarsi.

Encontros e Despedidas nasce molto lontano nel tempo, esattamente nel 1985, dalla penna di quel Milton Nascimiento che Shorter aveva già frequentato, undici anni prima, durante la lavorazione dell’album Native Dancer, tra i primi lavori discografici in cui si andavano ad inserire sonorità brasiliane, nell’ambito di un concetto di musica fusion che si stava sempre più ampliando; da sottolineare la prestazione vocale della Spalding, assolutamente a suo agio con una lingua non sua.

L’omaggio a Geri Allen che, come detto, avrebbe dovuto far parte di questa situazione, si concretizza definitivamente grazie all’esecuzione di un suo brano, Drummer’s Song, estratto da un lavoro del 1987, Open on All Sides in the Middle, registrato presso il Sound Suite Recording Studio di Detroit: anche in questo caso il pezzo originale, che aveva una durata di poco più di due minuti, viene espanso, raddoppiato, offrendo il giusto spazio ai protagonisti per lasciare il segno; lo show si chiude con Midnight in Carlotta’s Hair, composizione di Shorter datata 1995 e contenuta nell’album High Life, primo lavoro solista del sassofonista americano inciso per l’etichetta Verve che vinse tra l’altro il Grammy Award 1996 come Best Contemporary Jazz Album.

Live at Detroit Jazz Festival rappresenta una delle ultime occasioni per poter ascoltare dal vivo il sassofonista statunitense che, dopo ben sessantatrè anni di carriera, si ritirerà dalle scene nel 2021, e di poterlo fare in un contesto nel quale le barriere, sia generazionali che stilistiche, semplicemente si dissolvono di fronte a quattro personalità capaci di interagire con una scioltezza ed una spontaneità totali.

Shorter offre un’interpretazione di questo lavoro che è, di fatto, la sintesi della propria esperienza artistica: “With the mixture of people, male and female, varying ethnicities and backgrounds, sometimes we did things that sound larger than the four of us, with more of an orchestral approach. If there are things going on in the recording that can be heard by people to the extent that it can turn some thoughts around about life and culture… people who hear it may recognize that we are all different, and the same.

(Candid Records, 2022)

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